Il canto temporaneo di Sherman Alexie

Pubblicato sulla rivista “L’Irrequieto” nella rubrica Esplorazioni. ( Aprile 2018)

“Mi chiesi se un uomo potesse cantare per la sua stessa guarigione. Mi chiesi anche se mio padre avesse bisogno di aiuto per il canto. Erano molti anni che non cantavo in quel modo, ma mi unii a lui. Sapevo che il canto non gli avrebbe ridato i piedi. Non gli avrebbe riparato la vescica, né i reni, né i polmoni, né il cuore. Quel canto non avrebbe impedito a mio padre di scolarsi una bottiglia di vodka non appena fosse stato in grado di stare seduto sul letto. Quel canto non avrebbe sconfitto la morte. No, pensai, è un canto temporaneo, ma in questo momento temporaneo è abbastanza.”9788899253769_0_0_0_75

 (da “Danze di guerra” di Sherman Alexie, Traduzione di Laura Gazzarrini)

Una domanda di protezione, una Danza degli Spiriti, dell’immaginazione, una promessa che non può essere mantenuta: questo è il canto temporaneo di Sherman Alexie. Mi sono infilata nei suoi racconti e nelle sue poesie per ascoltarlo.  “Danze di guerra” (NN editore 2018, traduzione di Laura Gazzarrini) è il luogo in cui la melodia di questo canto, a volte bizzarro a volte lirico, si estende. Modulando forme, tonalità e ritmi diversi, poesie e racconti, odi, ballate, interviste e prose brevi, filastrocche, miti e questionari, danno voce a una speranza che contraddice l’esperienza che abbiamo della vita, una speranza nata già guasta, viziata dal disincanto, che però nasce, a cui i personaggi delle storie narrate affidano una loro residua vacillante fede nel futuro.

All’entrata vengo accolta da “Delimitati”, una poesia che più che un benvenuto è un monito: non credere di poter cambiare le cose. La poesia rende conto di uno spiacevole incidente, un micro evento capitato per caso a un uomo qualunque, che vede uno sconosciuto sterzare con la sua auto con l’evidente proposito di investire un randagio. Il cane riesce a fuggire ma negli occhi dell’uomo che assiste alla scena rimane la visione disturbante di questa intenzione, la visione di un atto di gratuita crudeltà che agghiaccia e stupisce.

“Dio, ho pensato, avrò visto davvero

quel che penso di aver visto?”

Seguendo un moto istintivo di disgusto, oppure una chiamata alla giustizia in difesa di chi è inerme, il testimone insegue l’assalitore e lo affianca al semaforo per trafiggerlo con uno sguardo severo. Ma l’altro, che quello sguardo irride, non cerca giustificazioni di sorta e risponde con una provocazione, un invito alla lotta che cade nel vuoto. L’uomo non cerca di redimere l’altro e si limita ad andare per la sua strada, registrando dentro di sé una sgradevole consapevolezza: questo tentativo di sopraffazione e violenza non è solo un atto privato ma è indicativo di una costante universale dell’esperienza umana. Come reagire? Il testimone non può fare nulla, va per la sua strada, e una volta arrivato a casa scrive una poesia in cui decreta la sua impotenza.

“Non ho saputo più nulla

dell’uomo o del cane

ma sono tornato a casa

e ho scritto questa poesia

Perché i poeti pensano

di poter cambiare il mondo?

L’unica vita che posso salvare

È la mia.”

Sul fondo degli eventi è sedimentata un’atavica ingiustizia di cui possiamo solo prendere atto. Così come accade nel racconto “Furto con scasso”, per me il primo incontro con la scrittura di Sherman Alexie, in cui un uomo uccide un ragazzo nero che si è introdotto in casa sua per derubarlo. I media non perdono l’occasione di raccontare il fatto come un omicidio motivato dall’odio razziale, come l’ennesimo caso in cui un bianco privilegiato uccide un nero, ma il pregiudizio contenuto nel racconto viene a cadere quando si scopre che l’uomo che ha ucciso il ragazzo è un nativo americano, anche lui membro di una minoranza che è stata schiacciata uccisa e sopraffatta dall’uomo bianco. Perché il ragazzo, che studiava ed era una promessa dello sport, si è introdotto a casa sua? E perché l’uomo, che non aveva motivo di difendere con tanta aggressività la sua proprietà, ha reagito uccidendolo? Il narratore non sa rispondere a nessuna di queste domande, sa solo riconoscere che la casualità, l’istinto o anche solo la necessità innata di difendersi da una possibile aggressione, lo hanno portato a “uccidere il potenziale di qualcuno”. Perché ho preso la mazza da baseball di mio figlio e ho aperto la porta del seminterrato? si domanda. Vuoi fare a gara a chi ha sofferto di più? Vuoi partecipare alle Olimpiadi del Genocidio? Perché tuo figlio era in casa mia? vorrebbe domandare alla madre del ragazzo.

Ma soprattutto, siamo spinti a chiederci noi lettori: perché l’uomo è invariabilmente costretto nel corso della sua vita a difendersi e ad aggredire, a deludere se stesso e chiunque altro, a essere punito per le sue buone intenzioni, a girare a vuoto in una riserva, vera o mentale, che delimita e restringe un mondo interiore potenzialmente vasto e indefinito?

I personaggi di questi racconti e poesie sono continuamente messi alla prova, sottoposti a un incessante interrogazione morale che li spinge a reagire contro qualcosa che apparentemente non li riguarda in prima persona, una storia più grande di loro, un passato di sopraffazione, violenza, morte, che coinvolge non solo i singoli individui ma intere categorie sociali, razziali, politiche.

In questo discorso più grande di cui non riusciamo a stabilire l’inizio o a intravedere la fine i ruoli di vittima, carnefice e testimone sono spesso intercambiabili e il movente delle azioni individuali e collettive resta sfuggente e complesso. In mancanza di risposte le uniche protagoniste sono le domande. Il loro suono, la loro forma, il ruolo che hanno assunto all’interno delle sezioni di prosa e nei versi, il ritmo che le ha spinte in primo piano e mi ha obbligato a riconoscerle come qualcosa che mi riguarda è quanto mi rimane di questa esperienza di lettura.

 In “Danze di guerra” quesiti morali e domande giocose o apprensive, stravaganti e irrazionali si pongono accanto a interrogativi esistenziali nel segnare il passo di un discorso intorno alla natura inconoscibile dell’uomo.

Domande su domande e una voce, quella che mi parla, che è sempre quella di un testimone, non quella di non eroe, o di una vittima. Una voce che denuncia da subito la parzialità del suo punto di vista, le sue perplessità, le menzogne e le mistificazioni di cui è denso ogni suo racconto, una voce che instaura con il lettore un dialogo immediato, intimo. La voce non fa che porci delle domande. Non conosciamo le risposte ma siamo costretti ad ascoltarla perché le domande con cui dobbiamo scontrarci, per quanto a prima vista possano sembrarci poste a una distanza siderale dalla nostra esperienza di vita, ci interessano, pretendono considerazione e rappresentano il suono distintivo di questo canto.

In “Vai, spirito, vai” la domanda è un appello al lettore, a cui il narratore chiede di venire in suo soccorso nella ricerca di un senso dentro l’esperienza vissuta.

Uno studente pellerossa, alle prese con un professore che ama elencare “tutti gli oppressori, passati presenti e futuri, che hanno ucciso, stanno uccidendo e uccideranno gli indigeni”, si chiede, e domanda a noi lettori:

“…ma perché deve essere così poco divertente?

E come può lui, bianco, parlare con tanta

passione

della Danza degli Spiriti, la strana e crudele

cerimonia

che, se ben eseguita, condannerebbe

tutti i bianchi all’inferno, distruggerebbe

le loro colonie,

e riporterebbe in vita ogni indiano morto?”

E ancora:

“…Mi chiedo come possa credere

In un rito che comporta la sua morte.”

Domande.

“Riuscite a immaginare la cacofonia di trentotto canzoni di morte diverse? Ma aspettate, un indiano venne graziato all’ultimo minuto, quindi solo trentasette indiani cantarono le loro canzoni di morte. Ma oh, oh, oh, oh, riuscite a immaginare la cacofonia della canzone di lutto di quell’unico sopravvissuto?” (Un altro proclama)

“che importanza ha il colore della pelle quando la vera identità è molto più profonda – sotterranea – e di gran lunga più varia e inquietante dell’etnia dei genitori?” (La ballata di Paul Nondimeno)

“Cosa succede a uno scrittore che non

scrive?”  (Agghiacciante simmetria)

Domande che non ottengono risposta perché dietro le nostre azioni, anche le più riprovevoli, dietro i desideri, le ambizioni e i crimini, il significato resta nascosto, sepolto sotto la somma delle nostre bugie. Così nel racconto “Il figlio del senatore”, il giovane che colpisce con una violenza cieca un ragazzo gay, senza nemmeno accorgersi di avere davanti l’amico di un tempo, aspetta invano di essere perdonato ma anche di essere giudicato correttamente. Il perdono e il giudizio sono impossibili in mancanza di una risposta alla domanda più importante: perché?

“E così me ne stavo lì seduto, un uomo capace di inspiegabile violenza contro un innocente, in attesa di essere giudicato dal mio Dio e da mio padre. Volevo spiegarmi e assumermi le mie responsabilità. «Mi dispiace» ho detto. «Non avrei dovuto attaccare quegli uomini. Non sarei dovuto andare via. Come minimo, sarei dovuto tornare. Dovrei tornare adesso e costituirmi alla polizia».

 «Ma non mi stai dicendo perché l’hai fatto» ha insistito mio padre. «Me lo puoi dire? Perché l’hai fatto?».

 Ho riflettuto, ma non ho potuto dargli una risposta. Non riuscivo a trovare il senso.”

In “Catechismo” – dove si racconta di una indiana Spokane che confeziona una trapunta fatta di ritagli di Jeans, che poi diventa una coperta dell’onore fatta di fotografie e immagini, che poi si trasforma in una trapunta della colpa per poi farsi trapunta epica realizzata con ritagli di dio-  l’interrogazione assume le sembianze di una stramba intervista in cui domande e risposte viaggiano due binari paralleli. Un dialogo tra voci che si rifiutano di comunicare e prendono ognuno direzioni diverse, come a dimostrare che alcune questioni presentano già al loro intero un pregiudizio che nessuna risposta, per quanto esaustiva, potrà mai correggere. Le risposte, allora, si prendono la libertà di contraddire le domande oppure di ignorarle deliberatamente, rinunciando una volta per tutte a stabilire una verità che possa placarle e metterle a tacere. Se proprio non possiamo fuggire a una visione e a un racconto parziale degli eventi, tanto vale abbandonarci alle nostre mistificazioni. “Credi davvero in Dio?

Mia madre teneva ritagli di Dio nell’armadio a muro. Il mio fratello maggiore li aveva sistemati in modo che assomigliassero a un materasso e a dei cuscini, e dormiva nell’armadio. Mia madre una volta usò i ritagli di Dio per fare una trapunta epica. La mia defunta sorella studiò la trapunta e disse: «C’è un sacco di Dio. C’è stato un sacco di Dio in questo Dio. Questa è una coperta di Dio».” 

L’uomo è solo, alle prese con un Dio che, se esiste, non è altro che il frammento di un nostro racconto, un ritaglio di stoffa fallata, con il quale al massimo possiamo provare a confezionare una trapunta che non sarà mai abbastanza grande, abbastanza calda, da farci sentire davvero al riparo.

Ma è in “Danze di guerra”, il racconto che dà il nome alla raccolta, che il senso di queste continue domande si fa evidente, manifestandosi nella forma di uno stravagante questionario.

Un uomo, diventato improvvisamente sordo, si convince di avere un tumore al cervello. Mentre si sottopone alle varie visite in cerca di una diagnosi deve anche affrontare la malattia del padre, un vecchio alcolizzato e diabetico nativo americano, al quale stanno per essere amputate parti dei piedi. Nel racconto, composto da 16 tagli, le domande che il protagonista si fa a proposito della malattia che lo riguarda e sulle motivazioni, personali e sociologiche, che hanno portato all’alcolismo del padre, culminano nella sezione numero 15: “Colloquio di uscita per mio padre.”


“Signore, nei suoi trentanove anni da genitore ha spezzato il cuore dei suoi figli, collettivamente e individualmente, 612 volte, e lo ha fatto senza mai colpire nessun essere umano in un momento di rabbia. L’assenza di violenza fisica la rende un uomo migliore di quello che sarebbe stato altrimenti?

Senza utilizzare le parole “bravo” o “uomo”, può cortesemente spiegare che cosa significa essere un brav’uomo?

Crede che vedrà gli angeli prima di morire? Crede che gli angeli verranno per scortarla in paradiso? Durante il tragitto, quante volte chiederà: «Siamo arrivati?».

Suo figlio ricorda chiaramente che una o due volte al mese vi fermavate presso quel negozio di alimentari a Freeman, Washington, lei gli comprava un ghiacciolo rosso, bianco e blu a forma di razzo e per sé prendeva una zampa di maiale sott’olio. Suo figlio ricorda che le zampe avevano ancora le unghie e piccoli ciuffi di setole. È vero? Mangiava sul serio del cibo così orrendo?

Suo figlio ha spesso scherzato sul fatto che lei è stato l’unico indiano della sua generazione ad aver frequentato di proposito una scuola cattolica. Questa è, ovviamente, una battuta mal riuscita, che però getta luce sulla detenzione forzata e sui conseguenti abusi psicologici, spirituali, culturali e sessuali subiti da decine di migliaia di bambini nativi americani in collegi cattolici e protestanti. Tenendo conto del discutibile gusto di suo figlio nel fare battute, crede che dovrebbero esistere limiti morali alla comicità?” 

Il capitolo è interamente costituito da quesiti che contengono una visione dei fatti implicita. Sono domande retoriche dal tono ironico, a volte sprezzante e prescrittivo, dettano la direzione di ricordi, opinioni, commenti su aneddoti e detti popolari. Le risposte sono assenti, l’intervistato non ha diritto di replica, quello che ha da dire è irrilevante perché è una menzogna, così come lo è ogni racconto che si fa di noi stessi, dei nostri atti e delle nostre nebulose motivazioni.  A un certo punto la sequenza di questi interrogativi invadenti e prolissi si interrompe per lasciare spazio a una poesia: “Distruzione mutualmente assicurata” nella quale in figlio dell’intervistato racconta la notte più significativa della sua vita, quella in cui il padre si è ferito con una motosega. Ma la voce che incalza torna subito dopo a sezionare il componimento, a sottoporlo a un tiro incrociato di verifiche che hanno il solo scopo di sconfessarlo. Il questionario si trasforma, alla fine, in una serie di particolareggiate risposte multiple che non lasciano nessuna via di fuga al travisamento poetico del ricordo.

“Allora, prima di tutto, come ben sa, si è veramente ferito il ginocchio con una motosega, ma al contrario di quanto dice la poesia di suo figlio:

  1. Si è recato al pronto soccorso subito dopo essersi ferito.
  2. Il suo capo ha chiamato sua moglie, che l’ha accompagnata in macchina al pronto soccorso.
  3. Le hanno somministrato della morfina ma perfino lei non è stato così alcolicamente stupido da bere sotto l’effetto di sedativi pesanti.
  4. Lei e suo figlio non siete saliti sul furgone quella sera.
  5. E anche se fosse vero il contrario, non era ferito in maniera così grave da aver bisogno dell’aiuto di suo figlio con i pedali e/o con il volante.”

L’uomo, sembra dirci l’autore, vive immerso in irrisolvibili dilemmi morali, continuamente scisso tra l’ideale e il contingente, spinto a compiere scelte che, direttamente o indirettamente, influenzeranno non solo la sua vita e quella delle persone con cui in modo più o meno casuale è destinato a relazionarsi ma la vita stessa dell’uomo sulla terra. L’uomo-personaggio che abita “Danze di guerra” è l’uomo che, seguendo la lezione esistenzialista di Jean-Paul Sartre, scegliendo se stesso sceglie l’uomo quale dovrebbe essere, è l’uomo che si fa in base alle sue azioni, più che al suo racconto; un uomo solo, senza scuse, lontano dal luminoso regno dei valori intellegibili e delle giustificazioni morali.

Il canto temporaneo assume, allora, la qualità di una tregua inutile, ma benedetta, al vagare tra valori vasti e indefiniti. Il grido di gioia di un ragazzo innamorato che attraversa una città innevata. Il lamento di un uomo a cui hanno spezzato il cuore. La supplica di un marito infedele che non vuole essere dimenticato.  Un canto temporaneo, la ricerca di una melodia capace di arrestare per un attimo il flusso continuo delle domande a cui ci chiama la vita.

 

Pubblicato da Emanuela Cocco

Emanuela Cocco, editor e autrice

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