Le epifanie sensibili di Pablo Simonetti

Pubblicato sulla rivista “L’Irrequieto” nella rubrica Esplorazioni. (Maggio 2018)

Il saggio è stato tradotto  dallo stesso Pablo Simonetti. (Giugno2018) QUI 

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Le epifanie sensibili di Pablo Simonetti

di Emanuela Cocco

  “Quando mi girai nuovamente verso il tavolo, mi parve che l’unica fonte di luce all’intorno fosse il bianco della tovaglia, sulla quale risaltavano piatti e bicchieri. Notai il whisky bevuto a metà e il vassoio con ancora un paio di tartine. La tristezza di quegli oggetti abbandonati mi penetrò nell’animo. D’improvviso, il vecchio locale, gli amici, le mie abitudini non riuscivano più a offrirmi il rifugio che cercavo. Giunsi a chiedermi se mi fossi mai sentito veramente al sicuro in quel posto. Sentii l’urgenza di andarmene, fuggire, mettere la testa sotto le coperte e respirare il mio odore.” 

(“Dal silenzio” da “Vite vulnerabili” di Pablo Simonetti, traduzione di Francesco Verde)

L’ epifania è un incantesimo che cambia i connotati al mondo. Le cose, prima sole, si incontrano, si offrono l’una alle altre. Uomini e donne, le loro parole, il mondo che li contiene o li respinge, i gesti che li accolgono, quelli che li allontanano, il tempo e le sue onde, gli oggetti di cui si impadroniscono i ricordi: per un istante tutto viene investito dalla luce, per poi tornare a vivere, o incenerire. L’uomo che dopo anni di fredda indulgenza coniugale torna ad amare come un ragazzo appassionato la donna che ha sposato, il bambino privilegiato che in una giornata al mare scopre improvvisamente gli altri, gli abitanti di quel mondo a cui il mare è negato, il giovane americano di belle speranze che insegue il sogno del successo, salvo poi trovare nel ribollire del suo fallimento il tesoro domestico che sempre gli era sfuggito alla vista, il direttore di un ospedale di provincia in cui i malati vengono picchiati, che si ammala di verità e muore del dolore di quelli che ora riconosce suoi compagni di cella: James Joyce, Goffredo Parise, John Cheever, Anton Cechov, e le loro epifanie. Ogni epifania è un incantesimo, e segue le sue formule, mira ai suoi scopi. Quelle che ho incontrato nella raccolta di racconti “Vite vulnerabili” di Pablo Simonetti (Lindau, 2018, traduzione di Francesco Verde) sono frutto del particolare assemblaggio di corpi attraversati dalla verità, rivelazioni sussurrate dal silenzio, doni e accoglienze pietose. Sono epifanie sensibili. Ho deciso di esplorarle per rivelarvi la loro composizione.

Sopralluoghi.


“Era in Europa per la prima volta e si aggirava con frenesia tra monumenti e opere d’arte, che venivano sovrapponendosi alle immagini ricavate dai libri e conservate nella memoria: la realtà, ne era certo, avrebbe di gran lunga superato le mille fantasticherie su artisti, palazzi e cattedrali, alimentate dalla sua passione per l’architettura.”  
(“Il giardino di Boboli”)


“Andava al circolo del bridge, a giocare la finale del campionato cileno ed era uscito di casa con largo anticipo; non voleva che qualche imprevisto lo facesse tardare, aggravando il suo nervosismo. In una sorta di montaggio cinematografico, cominciò a comporre nella sua mente le scene alle quali avrebbe partecipato quella sera. Immaginò il pubblico, gli avversari, l’aria satura di fumo della sala: inquadrature davanti alle quali proprio non riusciva a rimanere indifferente, e che anzi gli procuravano intense emozioni.” 
(“Finale di finale”)

“Negli ultimi tempi, uno dei suoi riti principali consisteva nell’accertarsi che nella villa non era cambiato niente, e per questo vi tornava più volte il giorno. La sola idea di scoprirne la porta scardinata o il tetto sfondato lo terrorizzava. Pensava che se le fosse capitato qualcosa, anche una parte di lui sarebbe andata distrutta per sempre. Peggio ancora: era convinto che ne avrebbe tragicamente sofferto anche uno dei suoi genitori. Il buio della notte gli si mostrò indulgente. Nella villa sembrava tutto a posto. Proseguì con passo tranquillo. Poi, d’improvviso e senza ragione apparente, dubitò di quello che aveva visto. Se non avesse controllato meglio, pensò, non sarebbe riuscito a dormire, quella notte. Tornò indietro e si fermò ancora una volta davanti alla villa. Con la testa fra le sbarre arrugginite dell’inferriata, esaminò tutto minuziosamente” (“Dispari”)

La liturgia della vulnerabilità di Pablo Simonetti comincia con un sopralluogo. La prima tappa di questa cerimonia epifanica è l’ispezione, la raccolta di dati, l’accesso al luogo, fisico ed emotivo, in cui si attende che la battaglia abbia inizio. La voce narrativa di Simonetti, perfettamente resa dall’ ammaliante traduzione di Francesco Verde, nomina il paesaggio con precisi, lirici, tocchi sensibili. L’aroma del crepuscolo, l’abbraccio degli alberi, l’ombra tremolante dei susini in fiore, il mormorio degli alberi mossi dalla brezza, dettagli che ci vengono incontro nella loro luminosa compostezza e circondano i personaggi che, al contrario, non riescono a star fermi. Uomini e donne si guardano le spalle, fanno supposizioni, elaborano piani di difesa ed esaminano lo spazio dell’azione drammatica, dove presto esploderà il conflitto, o dove una ferita è già stata inferta.

Andrés, il giovane sposo cileno per la prima volta in Italia con la moglie, in luna di miele, si aggira instancabile per musei a caccia di opere d’arte e scorci suggestivi di cui riempirsi gli occhi. Alla ricerca di un piacere estetico, che sempre gli sfugge, perlustra gli spazi, corteggia con lo sguardo gli alti palazzi, i monumenti, attraversa il paesaggio con una smania indomabile che lo allontana sempre più dalla moglie, l’unica presenza che si ostina ad ignorare. (“Il giardino di Boboli”)

Carlos, estromesso dalla famiglia per una storia di frodi finanziarie, si presenta, senza preavviso, e senza aver ottenuto il perdono, alla festa per l’anniversario di matrimonio dei genitori e da lontano scruta la loro corporatura, la loro casa, il loro modo di muoversi, mentre passa in rassegna i suoi vestiti e quelli della moglie sottoponendosi al severo esame degli sguardi dei presenti alla festa, che reagiscono alla sua presenza in quel luogo, che prima gli apparteneva e che ora lo respinge, procurandogli ogni sorta di ferita dell’amor proprio ancora prima che lo scontro temuto, quello con i genitori, abbia inizio. (“Nozze d’oro”)

Un uomo osserva il panorama e conferisce al colle che si trova davanti alla sua casa una connotazione sessuale, investendolo di desideri e impulsi che fino a quel momento sono stati repressi. Il colle Santa Lucìa esercita su di lui un’attrazione irresistibile che oscilla tra l’eccitazione e il terrore. Sotto la spinta di questo sguardo il paesaggio prende vita, si trasforma in un organo, un gigantesco polmone sessuale che respira all’unisono con le coppie clandestine che lì, tra i cespugli, trovano l’appagamento di orgasmi immediati e anonimi. L’uomo osserva come in bilico davanti alla soglia dell’azione. Il suo sguardo non è neutro, la sua contemplazione è già abitata dai fantasmi. Di fatto il suo è un sopralluogo, un rilevamento emotivo che parte dagli occhi, un’operazione preventiva per accertare le cause di una forza, già presente in lui, che sta spingendo perché lui esca dall’indeterminatezza del desiderio ed entri nel regno dell’azione e del racconto. (“Santa Lucia”)

Con lo stesso spirito, una ricerca carica di inquietudine, la necessità di studiare i possibili punti strategici da cui partirà l’offensiva, con questo stesso arroccamento nella propria paura, i personaggi dei racconti di Pablo Simonetti compaiono in scena, così da farmi pensare al momento del sopralluogo come a una stazione obbligata del rito epifanico, la prima e insostituibile posizione occupata dai personaggi  nel racconto, quella in cui la verità e la sua esplosione di luce fanno già capolino nelle vesti di una misteriosa minaccia che preme alle porte della percezione.

Così e per questo motivo, appena entrati in “Vite vulnerabili” vedremo subito Videncio, il giocatore di bridge, scrutare la strada e contare le macchine che sfrecciano in direzione contraria per tentare di calmarsi. Lo seguiremo, mentre si presenta con largo anticipo alla finale, che cambierà il suo modo di guardare al mondo e a se stesso, solo per avere il tempo di osservare l’atemporalità dei corpi che occupano il circolo di bridge dove da anni trascorre la parte più significativa della sua vita. E vedremo come nel suo sguardo alleati e antagonisti si confonderanno fino a fargli perdere qualsiasi orientamento, sottomessi, tutti, uomini e cose, al dominio del suo profondo terrore di esserci, che di lì a poco esploderà. (“Finale di finale”)

E allo stesso modo, l’uomo invitato a un ballo di Capodanno a casa di amici e l’assiduo frequentatore di circoli letterari, lo scrittore in lutto per un amore mai vissuto, l’agente di una piccola filiale di banca, lo studente affetto da strane manie, la donna sposata alla ricerca di una conferma del suo potere seduttivo e il traduttore che sta per incontrare l’autore che più di tutti merita la sua stima: tutti loro ci accoglieranno con lo sguardo voltato altrove, occupato in un’incessante verifica dei dati a disposizione per fronteggiare al meglio un attacco imminente, e li vedremo fissare qualcosa oltre le nostre spalle con il loro sguardo inquieto, alla ricerca di garanzie,  inutili amuleti di cui si serviranno per provare a scansare la prova che invece li attende, inesorabile.

Gesti.

“Sei sul bordo della rupe, a picco sul mare, un posto che tutti vorremmo come destinazione alla fine dei nostri giorni. Mi sono seduto su un gradino e ho poggiato una mano sulla pietra. Una tenerezza, ma anche una piccola vendetta: in vita non me l’avresti mai permesso.” (“Amore virtuale”)

“Mio padre fu il primo ad accorgersi di noi. Toccare il braccio di mia madre, che pregava a testa bassa e mani giunte, fu il suo unico gesto visibile. Aspettai che lei alzasse gli occhi, senza distogliere i miei. Mi imposi di non subire quello sguardo come una nuova sentenza. Il suo volto si contrasse per lo stupore. Si aggrappò al braccio di mio padre. Notai la mano del vecchio serrarsi sulla grinfia di legno con cui terminava il bracciolo dello scranno. Un doloroso ricordo attraversò l’aria e si piantò nella mia mente;” (“Nozze d’oro”)

“In quell’istante notò le scarpe di fianco all’impianto stereo. Poi guardò Bossard. Il ragazzo stava massaggiandosi le dita dei piedi, sotto i calzini blu. Si sentì prendere da una violenta eccitazione. Pensò che il ragazzo lo stesse provocando.” (“Senza pietà”)

Il moto perpetuo, la fuga, la patologica ricerca di elementi, l’incessante accumulo di dettagli e informazioni che caratterizzano il sopralluogo, questa vertigine di immagini in movimento può essere interrotta solo dal tocco umano, un’invasione verso l’altro, carica di intenzione. La costruzione dell’epifania sensibile si affida quindi ai gesti. Puntati contro i personaggi, carichi di   significato, i gesti fanno la loro comparsa nel racconto per dare inizio all’incantesimo. Presto riempiono la scena, protesi verso l’obiettivo sensibile del corpo per dettare la parola: azione. Alcuni segnano una distanza, sono gesti che cadono nel vuoto, gesti trascurati, non accolti, privi di uno sbocco, abbandonati. Come nel racconto “Nozze d’oro”, in cui il protagonista cerca, dopo anni di esilio, di tornare a toccare il corpo affettivo della sua famiglia, senza mai riuscirci, se non alla fine, e solo per il tempo di un addio. Il protagonista si muove perché qualcuno lo muove, perché viene toccato e questo fa sì che entri in relazione con l’altro. Sospinto dalla percezione sensibile degli affetti, il personaggio avanza verso il cuore freddo della sua malinconia.

La mano che non viene afferrata, l’abbraccio da cui ci si divincola, la muta richiesta di soccorso costretta in uno sguardo che si decide di ignorare. Gesti che pronunciano una ricerca di intimità che viene disattesa. Oppure, gesti che invitano all’azione, al rischio, gesti che parlano un linguaggio che non può essere adulterato, carico di promesse. Il gesto è un presagio, una divinazione, a volte errata, di quello che accadrà. Può essere frainteso, come spesso accade nei racconti di Simonetti, ma la forza che sprigiona è indiscutibile e la reazione al suo manifestarsi è immediata. Il gesto guida, ordina e crea scompiglio, ma sempre accompagna. Rompe il girare a vuoto della paura nella mente dei personaggi, li spinge ad entrare nella storia e dà il via al movimento che porterà alla manifestazione epifanica centrale del racconto, passando, prima, per un’altra stazione obbligata in cui tutto verrà messo in discussione

Esami.

“Fabrizio, intanto, provava un indumento dopo l’altro, pensando a cosa avrebbe indossato Faraday quella sera. Se il suo intuito non lo ingannava, l’inglese doveva essere un uomo sicuro di sé, uno di quelli per i quali vestirsi era un’azione spontanea, non meditata come nel suo caso. Ma questo non bastava per capire cosa mettere. Il solo indizio che aveva era la camicia di jeans. Cominciò con quella, poi indossò dei pantaloni neri di velluto a coste e una giacca di panno, anch’essa nera, un po’ deformata dall’uso.” (“Peter Faraday”)


“Un’occhiata maliziosa di Tomasito, sommata a un certo tramestio alle mie spalle, mi fece capire che stava accadendo qualcosa di strano. Mi voltai e mi trovai davanti il custode. Ballava ancheggiando, a non più di un metro di distanza. Teneva lo sguardo basso, ma capii che il motivo di quel dimenarsi ero io. Mi girai verso Mariana e vidi sul suo volto un sorriso congelato, quasi una smorfia. Con gli occhi, cercai subito Miguel. Il mio sconcerto era palese e in qualche modo chiedevo aiuto. Miguel mi lanciò uno sguardo solidale. «Quando beve, gli viene da ballare» mi disse, divertito. «Non preoccuparti, è inoffensivo».” (“Il ballo”)


“Ritornò all’edificio e indugiò davanti all’entrata, in cerca di qualche segnale che la aiutasse a prendere una decisione. Le scale poco illuminate che conducevano al terzo piano simboleggiavano perfettamente il suo stato d’animo, come se, salendole, stesse avventurandosi in luoghi inesplorati della sua coscienza. Aveva un po’ di nausea e sentiva il cuore batterle forte. Più che l’esito incerto dell’incontro, la preoccupava quel viaggio verso l’ignoto delle proprie emozioni.” 
(“Nevada”)

Dopo essere entrati nel racconto e aver svolto le operazioni preliminari del sopralluogo, i personaggi sono chiamati a sostenere un esame, una messa alla prova in grado di testare la loro capacità di sopravvivenza a un conflitto. Vi si presentano come a un ballo in maschera, in cui alla fine ogni cosa sarà svelata. Come per la festa del Don Giovanni mozartiano, i personaggi sanno che parteciparvi comporterà qualche rischio e restano a lungo sospesi tra la paura e il desiderio che l’evento si compia. Il desiderio di contatto, la necessità di essere perdonati, amati, sedotti, o ascoltati, la speranza di essere compresi, la paura di venire dimenticati o fraintesi, il bisogno di essere raggiunti, visti, da un altro: tutto questo è oggetto dell’esame. Prima di presentarsi all’appuntamento ognuno di loro sceglie con cura quale maschera indossare. Il personaggio, prima invisibile a se stesso, si guarda ora allo specchio. Nei racconti di Simonetti ricorrono scene in cui i personaggi scrutano minuziosamente la loro immagine e scelgono i costumi di scena con i quali si presenteranno all’evento, atteso e temuto, che li vedrà finalmente protagonisti di un momento significativo delle loro vite.  Indumenti veri e propri, ma anche atteggiamenti, posture, riti scaramantici, tutto quanto è utile alla simulazione viene portato sulla scena del conflitto e usato dai protagonisti come un’arma di cui si serviranno, al momento opportuno. L’esame ha come scopo, infatti, un brutale smascheramento, la messa a nudo di una mistificazione inconsapevole, la verifica della capacità dei personaggi di gestire la transizione verso un nuovo stato, una nuova identità che non avrà più bisogno di servirsi delle soluzioni di compromesso sulle quali si è assestata la loro vita fino a quel momento.  La natura dell’esame a cui verranno sottoposti i personaggi rimanda al tema dell’identità e della relazione.

In “Nozze d’oro” il protagonista deve affrontare l’incontro con i genitori che non vede da anni e l’esito incerto dell’incontro, il rischio di essere cacciato ancora una volta, la paura di non ottenere il loro perdono, l’ostentazione della loro ricchezza, la fredda altezzosità delle loro maniere, lo mettono in uno stato di altissima tensione che lo porterà a riconsiderare se stesso, il rapporto con la moglie e la sua condizione esistenziale di uomo isolato e socialmente sconfitto.

Nei racconti “Santa Lucia” e “Senza pietà” i protagonisti si confrontano, invece, con le loro pulsioni sessuali, male integrate nella loro vita quotidiana. La maschera indossata dai protagonisti dei due racconti viene a cadere grazie alla spinta del desiderio, e l’atto o l’approccio sessuale, l’esame a cui si sottopongono senza poter opporre alcuna resistenza, li porterà a dismettere il loro travestimento rispettabile per mostrare al mondo la loro vera natura.

Anche in “Nevada” il desiderio e la seduzione agiscono come momento di verifica identitaria per il personaggio. La donna protagonista si trova infatti a dover scegliere se accettare o meno la proposta di un appuntamento con uno sconosciuto. L’esame che dovrà sostenere non punta tanto sulla scoperta della sua sessualità quanto sulla presa di coscienza di una mancanza di passione nella sua vita e del suo desiderio di recuperare la sua femminilità, di provare a se stessa di essere ancora una donna desiderabile.

In “Finale di finale” l’esame a cui viene sottoposto il personaggio è il momento cruciale in cui il protagonista, che ha barato giocando la finale di una partita di bridge, dovrà scegliere se mentire e vincere la partita oppure scoprire il suo gioco e perdere, mantenendo così la stima di quello che crede essere il suo unico amico.

Qui come negli altri racconti i personaggi sono messi davanti a una scelta difficile, a un dilemma in cui per vincere quella che rappresenta una posta in gioco emotiva, intima, utile alla loro crescita esistenziale, i personaggi devono prima perdere quello che per loro rappresenta un semplice desiderio e non un vero reale bisogno.

Sempre nel racconto “Senza Pietà” Álamos, il protagonista del racconto invaghito del collega, il giovane Bossard, tenterà un approccio sessuale che verrà rifiutato con sdegno dal ragazzo, il quale, denunciando l’accaduto, porterà il protagonista ad essere licenziato. Alla fine del racconto Álamos avrà perso l’oggetto del suo desiderio, e anche la sicurezza raggiunta grazie alle menzogne accumulate in tanti anni. Ma quando lo troviamo chino e sanguinante nel parcheggio dopo essere stato picchiato da Bossard, che non accetta di essere ancora trattato da preda sessuale, pur nella sconfitta, nel fallimento completo, possiamo constatare che il protagonista ha vinto quello che gli occorreva per evolvere, per evadere da un’identità fittizia e diventare un altro fino quel momento negato: se stesso.

“Lasciò che le immagini scorressero nella sua mente, fermandone solo una: la bara in cui il mondo l’aveva messo, per seppellirlo ancora in vita, era aperta; anche il fondo della cassa aveva ceduto. «E ora?» si chiese. Per il momento decise di rimanere lì, accanto all’Impala. Lì si stava bene.” 

Sanguinante, senza più un lavoro o un’identità di copertura disponibile, completamente solo, Álamos è finalmente affrancato dalle sue bugie e nel culmine del fallimento conquista una liberazione che lo riporta alla vita.

Effetti.

“Un nuovo attacco di nausea fece impallidire Fuentes. Per rallentare il flusso anarchico delle immagini, cominciò a chiudere e a riaprire gli occhi a intervalli molto più lunghi di quanto richiedesse il normale battito delle palpebre. Lanciò lontano il mozzicone, facendo scattare le dita in avanti; il proiettile rimbalzò contro la parete e cadde sulla moquette. «Spegni la cicca, potrebbe bruciare la moquette» lo ammonì il giudice che aveva parlato per ultimo. Fuentes non si mosse. Sbatteva le palpebre come una marionetta. Il giudice di sinistra uscì dallo stretto spazio fra il tavolo e la parete e andò a spegnere la cicca. Poi gli si avvicinò: «Stai bene?». Lo sguardo di Fuentes era quello di un bambino spaventato. Il suo corpo cominciò a tremare.” (“Finale di finale”)

 “Decise di ripetere la sequenza. Terminata la seconda serie capì che avrebbe dovuto ripetere l’esercizio una terza volta: l’effetto, allora, sarebbe stato garantito. Non sapeva quanto tempo fosse già passato; il suo orologio era rimasto sul comodino. Ma niente poteva rovinare quel suo capolavoro.” (“Dispari”)

“Dopo un po’ il sedativo perse efficacia e davanti ai miei occhi ripresero forma i rami contorti dell’albero del pepe. Le sue foglie, lucide di pioggia, avevano l’aspetto di tante piccole lance. Il tremito alle gambe aumentò, propagandosi a tutto il corpo, così come allo spirito che, sorpreso nella sua più completa nudità, fu facile preda di un cupo terrore. Riuscii a stento a sopportare l’angoscia, sebbene provata altre volte quella sera. Mi sentivo indifeso. Avevo freddo.” (“Santa Lucia”)

L’effetto di un’epifania sensibile è lo spettacolo del corpo nel momento in cui l’esplosione di luce lo attraversa, il riscontro visibile dello spostamento di senso che ne consegue. La comunicazione cambia di frequenza, uomini e donne balbettano, ammutoliscono, si abbandonano a frasi rabbiose e provocatorie oppure, impauriti, iniziano a supplicare. Il corpo è scosso da sussulti trionfanti o disperati, le gambe crollano o si distendono, finalmente quiete. La temperatura corporea si abbassa, arriva il freddo, giunge l’apatia, esplode l’eccitazione. Tutto quello che è stato svelato si riversa all’esterno, è qualcosa che è possibile avvertire con i sensi, qualcosa che può essere contemplato e toccato con mano. Le parole sfuggono di bocca, oppure il personaggio cade vittima di una fulminea afasia, la tenerezza e lo sconforto si insinuano nei gesti, negli sguardi, abitano il volto dei personaggi. Tutto è a vista, acquisisce un corpo, che trema, si addormenta, è catturato da una fulminea eccitazione, accelera la sua corsa, si immobilizza. Nella vertigine drammatica che li cattura, gli effetti sensibili trasportano il senso. Un terribile spaesamento, una nuova idea del mondo e di sé, domina il corpo e i personaggi cedono alla crisi, scossi da spasmi involontari d’odio, diffidenza, affetto, di tutte le contraddittorie manifestazioni fisiche di un profondo e definitivo scompiglio interiore.

Doni.

“Incrociai lo sguardo del custode: innocente, timido, ansioso, ma con una luce di speranza ravvivata dall’alcol. Il suo modo di muoversi e di gesticolare aveva qualcosa di infantile, come quello di un bambino che invita un altro bambino a partecipare a un gioco che ha appena inventato. D’improvviso non seppi più se ciò che sentivo era rabbia o compassione. Me ne stavo lì, quasi immobile, ma nel segreto del mio cuore ballavo con lui.” (“Il ballo”)

“Evitò il mio sguardo. Prese il suo cuscino e disse: «Vado a dormire con Paulina». «Camila… ho paura» dissi io, in un ultimo, disperato tentativo di riavvicinarmi a lei. Rimase accanto al letto, calma, abbracciata al cuscino. Guardò il soffitto, forse per impedire il riaffiorare delle lacrime. Dopo un prolungato silenzio, abbassò gli occhi e li puntò su di me. Pieni di rabbia, dolore, paura. Dal fondo delle sue pupille trapelò, tuttavia, un barlume di pietà.”(“Santa Lucia”)

“Se qualcuno si fosse fermato a osservarci, avrebbe notato che il mio viso e quello di Molina riflettevano lo stesso felice disinteresse. Alla fine dell’ultima conferenza, mi ridestai di colpo. Riflettei su quanto fosse stata piacevole l’esperienza. Mi voltai verso Molina e, quando rividi quella luce nei suoi occhi, credetti di capirlo completamente per la prima volta.” (“Dal silenzio”)

L’epifania sensibile è il dono che la verità ci lascia dopo la sua aggressione. Un dono che viene consegnato, e in questo sta la grande bellezza dell’incantesimo riuscito dei racconti di Simonetti, da un altro pietoso, un altro caritatevole che ci circonda con il suo abbraccio, che accoglie il nostro turbamento e acconsente a prendersi cura di noi, a tenerci con sé finché non avremo smesso di tremare. Contrariamente a una tradizione consolidata nella letteratura che vede nel dono uno svelamento dell’inganno e nel momento epifanico un dissolversi del mondo originario che lascia dietro sé solo rovine, nei racconti di Simonetti il nuovo mondo offre a chi vi entra, disarmato, una luminosa dolcezza, è un dono di libertà. Nonostante la sofferenza che comporta, l’avvento della verità apre a una nuova vita non più desolata e oscura. Il dono delle epifanie sensibili di Pablo Simonetti è l’accoglienza dell’altro, al quale ci si affida ormai stremati e privi di certezze, completamente inermi. Nulla o quasi viene detto al momento in cui questa pietosa unione si realizza. Il dono avviene nel silenzio.

Nel racconto in cui, a mio parere, Simonetti riversa intero il senso ultimo di tutta la raccolta, troviamo la conferma di questa silenziosa perfetta comunione tra due esseri umani realizzata in assenza di parole. “Dal silenzio” racconta di un’amicizia, un affetto intimo tra due uomini che non sfocerà mai in un’aperta confessione. Semplicemente il primo, protagonista del racconto, troverà in una silenziosa presenza, quella del misterioso Aurelio Molina, uomo distinto e taciturno che partecipa assiduamente a degli incontri letterari in cui, ostinatamente, non prende mai la parola, un affetto sicuro, un centro di interesse che avrà il potere di orientare la sua vita e di liberarla. Il fascino silenzioso di Molina, la sua serena contemplazione, la sua rinuncia alla lotta d’opinione, la sua calma compostezza, l’amabile aria inoffensiva che lo caratterizza, conquisteranno irrimediabilmente il protagonista del racconto che, quasi senza accorgersene, eleggerà Molina a suo interlocutore privilegiato, fino a inseguirlo nel territorio del silenzio che tutto accoglie e comprende, che nulla inchioda in un giudizio parziale. La vivida e mai assente impassibilità di Molina, la sua distanza e imperturbabilità calamiteranno l’attenzione del protagonista spingendolo a fare mille congetture sul suo misterioso amico, supposizioni, domande che non otterranno mai risposta. In silenzio, ancora avvolto nel suo insondabile mistero, così come ha vissuto, Molina lascerà la scena, non prima di aver lasciato all’amico un prezioso insegnamento che mai verrà espresso a parole. La dismissione di sé nel personaggio di Aurelio Molina, così come in tutti i doni epifanici offerti dai racconti di Simonetti, non porterà affatto a una dissoluzione, ma, al contrario, a una accettazione di sé che esclude il giudizio, a un ricomporsi dei frammenti anche bizzarri di cui noi siamo fatti grazie alla negazione di qualsiasi sciocca pretesa di unità e coerenza che presiede alla costituzione di un’identità. Nel volto dell’altro, tra le sue braccia, nel silenzio, lo shock della scoperta e la dolorosa nudità che ne consegue, verranno riassorbiti. Pieno di grazia e levità, il dono dell’altro, l’amore pietoso: arresterà la frenetica corsa della paura nella mente di un ragazzo che sorveglia una villa abbandonata insidiata dai ratti, sfonderà la bara in cui un uomo è stato sepolto in vita dalla società, ricongiungerà madre e figlio in un abbraccio di addio che nulla risolve ma tutto risana, unirà ancora una volta un marito e una moglie in un consapevole perdono delle proprie mancanze.

Questo accade, alla lettura dei racconti di “Vite vulnerabili”. Assistiamo allo sfiorarsi di estraneità che senza bisogno di parole si comprendono e si accettano. Vediamo lo sguardo, il tocco dell’altro, coprire come un manto la loro nudità, placare la loro vergogna, e mettere a tacere, anche se per poco, la loro paura. E tutto questo ci sfiora con tocco silenzioso, in un movimento preciso e delicato che ha in sé qualcosa di misero e di maestoso: un’epifania sensibile.

Pubblicato da Emanuela Cocco

Emanuela Cocco, editor e autrice

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