Il catalogo Sátántangó : configurazioni del visibile e anomalie formali.

Titolo originale: Sátántangó

Ungheria/ Germania/ Svizzera 1994; b/n, 450’

Regia: Béla Tarr

Interpreti: Miklos B. Szekely, Janos Derzsi, Putyi Horvath, Mihaly Vig

Se sentivate che questo posto era maledetto perché non avete fatto qualcosa?Pensavate che un uovo oggi fosse meglio di una gallina domani? Questa è una vigliaccheria, porta male. Le conseguenze sono gravi.Si tratta di impotenza,deplorevole impotenza. Si tratta di debolezza,debolezza ignobile. Si tratta di vigliaccheria, vigliaccheria ignobile. Si fanno cose imperdonabili, non solo agli altri ma anche a noi stessi…Ogni genere di viltà è un peccato contro noi stessi. (1)

A parlare è un vagabondo di nome Irmias. Irmias lo stregone, potrebbe costruire un castello con la merda di vacca…se volesse (2). Un bel soggetto. Si è fatto credere morto, insieme al suo compagno di furfanterie, Petrina, e dopo due anni torna in veste di profeta dalla sua gente, nel disastrato villaggio ungherese immerso nel fango e tormentato da una pioggia battente che non lascia scampo, rovina ogni cosa, scrosta i muri delle case, si insinua nei vestiti, e dentro gli uomini, per diventare una pioggia interna che lava gli organi e svuota gli animi fino a lasciarli inermi e stremati. L’occasione della predica è dolorosa. Estike, una bambina sui dieci anni, giace senza vita su un tavolaccio di legno, il suo gatto, morto anch’esso, stretto tra le braccia (3). Si è avvelenata con il veleno per topi. Dopo aver vagato sotto la pioggia per ore e aver osservato, nascosta dietro la vetrina dell’unico bar del villaggio, la disperata scomposta danza a cui sembra essersi abbandonata l’intera comunità, in preda all’alcol, alla lussuria, al fasto, all’illusione e alla disperazione, ha deciso di farla finita (4). Prima di quella danza e della morte ci sono state, come sempre, la pioggia e l’inerzia. In uno di quei giorni, abbandonata a se stessa e alle sue illusioni, Estike, insieme al fratello, ha sotterrato, proprio come nella favola di Pinocchio, del denaro, nella speranza di poter diventare ricca, e soprattutto, di poter dormire nella stanza migliore. Estike passa il tempo a spiare le persone da dietro le finestre. Si acquatta in un angolo e resta a guardare. Quando la madre la scopre la picchia. In un altro di questi giorni freddi e piovosi Estike si rifugia da qualche parte e resta a fissare il vuoto tenendo il suo gatto sulle gambe. Lo accarezza, poi, quando lui si allontana, lo riafferra e inizia a seviziarlo. Lo stringe, lo getta nella polvere, lo sgrida, colpisce, lo chiude in un sacco di rete. Poi lo obbliga a bere il latte avvelenato spingendogli il muso nella ciotola. Poi lo guarda morire. Lei è più forte di lui e, lo avverte, non avrà nessuna pietà. Ora che è immobile è tutto suo e può portarselo dietro come fosse una bambola di pezza. Poi, Estike scopre di essere stata ingannata. La pianta del denaro è stata rubata. Nessuna possibilità di diventare ricchi, di dormire nella stanza migliore, di sfuggire alla pioggia. Allora, con il gatto sotto braccio, camminando spedita, prende la via del bosco. Trova un posto buono come un altro per morire, ingoia il veleno, si sistema i vestiti, e sdraiata su un tappeto di foglie e fango, stringendo tra le braccia il suo gatto, aspetta la morte. E intanto c’è ancora il tempo per un’ultima illusione che giustifichi tutto: la morte, il tradimento, tutta quella pioggia (5).

Ora, al suo funerale, il profeta Irmias domanda ai presenti: la bambina è morta per farci risorgere? Ci sono tutti : gli Schmidt, i Kraner, gli Halics, il maestro, Futaki lo zoppo, e tutti gli altri abitanti del villaggio di fango. La fattoria collettiva in cui lavoravano è stata dismessa, e ognuno di loro ha una piccola somma a disposizione per scappare da quel luogo maledetto. Dopo tanti raggiri, complotti, tradimenti e progetti grandiosi di cambiamento, quei soldi lasciano le loro tasche e finiscono in quelle di Irmias il quale propone di costruire una fattoria modello di vita sicura, un’isola in cui nessuno è impotente (6). Il sacrificio in nome della felicità comune è stato compiuto. Ma perché questa nuova utopia possa prendere vita, Irmias li mette in guardia, bisognerà attendere (7). La fine è prevedibile: i risparmi prendono il volo insieme a Irmias e al compagno Petrina, la comunità si disperde, rigettata nella vita con appena pochi spiccioli e la prospettiva di un futuro ancora più duro e freddo di quello da cui si sta allontanando a bordo di un furgone, sotto la pioggia scrosciante. Gli Schmidt, i Kraner, il maestro, Futaki, gli Halics, partono per un nuova vita, sorretti da una speranza che ha il volto del profeta ladro vagabondo Irmias, che disprezza il lavoro e chi lavora sodo, che in realtà è stato incaricato dalla polizia, dall’ordine e la legge in persona, di portare a termine un’oscura missione. All’inizio e alla fine di questa storia fradicia di brandy, musica, illusioni e tradimenti, troviamo quello che Enrico Ghezzi (8) chiama il nero senza bianco di Satantango, e il suono misterioso delle campane, su cui si interroga il dottore, altro abitante del villaggio, alcolizzato, abbandonato a se stesso nel villaggio deserto, l’unico scampato all’apocalittico potere della speranza che ha gettato gli altri senza difese nel tranello di Irmias (9)

A volerla raccontare senza scendere nei dettagli la trama di Satantango è tutta qui, racchiusa nella miseria delle case dai muri scrostati dalla pioggia, nella scena centrale (10) in cui gli abitanti, in preda a sogni di grandezza, paura, desiderio, si lasciano travolgere dall’alcol e dalla musica abbandonandosi a una danza sfrenata che viene osservata da una bambina che poi si toglie la vita, non prima di essersi trasformata, in una lunga sequenza raccapricciante, in uno spietato carnefice, oppure nella sequenza in cui, al suo funerale, dopo essere rimasti sedotti dalle parole del falso profeta, un gruppo di disgraziati, meschini, poveri , falsi traditori e ubriaconi, compra con la paga di un anno di duro lavoro la speranza dalle mani di un vagabondo e solo in nome di quest’ultimo sacrificio trovano la forza di rompere anche solo per un istante, anche se cedendo a un ignobile inganno, l’inerzia, la spaventevole stasi che nella quale si trovavano imprigionati. Questo è Satantango, del regista ungherese Bela Tarr, basato sul romanzo dello scrittore ungherese Krasznahorkai, oltre sette ore di film in 150 sequenze di circa dieci minuti, con un picco nella sequenza del ballo che sfiora i trenta minuti, trionfo del long take, dove il solo limite della durata della sequenza è dato dalla durata della pellicola, e della sua straordinaria incongruenza e innaturalezza, catalogo di piani di ripresa eccentrici, inquadrature dalla prossemica irrazionale, con una messa in quadro tesa quasi a escludere il personaggio dal visibile, che lo costringe a chinarsi, a lottare tra le pieghe del racconto per guadagnarsi il diritto ad essere presente sulla scena in una sorta di continuo estenuante montaggio proibito (11) che irretisce completamente lo spettatore.

Riproposto a più riprese da Fuori Orario, e ultimamente da alcuni festival del cinema (12), il film di Tarr resta quasi sconosciuto, in un certo senso ancora inedito, guardato con ammirazione e con distacco, una sorta di Horcynus Orca (13) del cinema d’autore, un’esperienza, dal punto di vista della fruizione cinematografica, del tutto unica, diversa anche da quella che può essere rappresentata dal complesso ciclo di racconti di Heimat di Reitz (14) o dal Berlin Alexanderplatz di Fassbinder (15). Satantango, film sul tempo e sull’inerzia, nella sua pretesa di raccontare il tempo naturale della vita e del pensiero, trova la sua peculiare invadente e seducente artificiosità in lunghissimi piani sequenza che sembrano sussurrarci in un orecchio la natura del nostro passaggio su questa terra, fuggevole, irripetibile come la vita degli eroi, ma al contrario di quella, trascurabile, priva di scopo e significato. Una vita sopportabile solo acquistando a caro prezzo un po’ di speranza, anche da un tipo come Irmias. Questo film, che ci obbliga a stabilire, almeno per la durata della visione, un diverso rapporto con il tempo, non offre nessuna gratificazione. Dalle vacche che, con estrema lentezza, occupano i primi interminabili minuti del film, alla voce strascicata e insopportabile del vecchio dottore alcolizzato che sigla la fine della storia, mai narratore fu più inattendibile e poco accattivante di questo, alle scene in cui la macchina da presa è come abbandonata a se stessa, tenuta a una distanza, che a lungo andare diventa irritante, dal centro dell’azione, dove si muovono personaggi che per la maggior parte del tempo non hanno un volto e di cui, specialmente nella prima ora del film, si fa fatica a dare un nome, tanto si somigliano, ugualmente miserabili, sporchi, fradici di pioggia con il berretto calato sulla fronte, pronti a tradire e a mentire o a lasciarsi fregare come babbei dal primo che capita. Ogni cosa in questo film, dove nemmeno i bambini sono bambini, e la compassione sembra non aver diritto di asilo, ogni singola inquadratura invasa dal fango o dal puzzo della terra, di cui parla Futaki lo zoppo, uno degli abitanti del villaggio, sembra voler provocare lo spettatore, fino al limite estremo della sopportazione stabilendo un rapporto con le immagini e con la storia sempre in bilico tra la partecipazione e la rinuncia. Ma si sa, per dirla con Bergson, esistere significa mutare (16), e alla fine ci si rende conto che il tempo di cui è intessuto il film è quello che occorre, è il tempo che produce mutamenti all’interno dei personaggi, all’interno del mondo di fango, prima immobile, annegato dalla pioggia, popolato da tanti reietti, poi deserto, spettrale, scosso dal suono impossibile di campane inesistenti, e che produce mutamenti dall’altra parte del quadro, dove si affaccia gelido e risoluto lo sguardo di Estike che attraversa il bosco, dove si fissa la perenne esca seduttiva della signora Schmidt, il ghigno della signora Halics, lo sguardo malinconico di Futaki, quello avido e ottuso di Schmidt, il volto impenetrabile di Irmias. Ecco che poco a poco, ci vuole il tempo necessario, questi nomi senza volto diventano sguardo e gesti inconfondibili.

Proprio come nel naturale processo di conoscenza ecco che da semplici nomi e fisionomie viene fuori l’individuo. La signora Schmidt che passa da un letto all’altro fin dalla prima scena, ci è familiare in modo doloroso mentre agita i seni enormi nella scena del bar, quando tutti i membri del villaggio si abbandonano all’alcol e alla danza. La sorprendiamo di nuovo poi nel letto di Irmias (17), e ancora nel casale abbandonato, con gli occhi lucidi, piena di sgomento, la troviamo addormentata dopo una notte di indecisione nell’attesa che Irmias, il profeta improvvisato, si faccia vivo anche solo per perpetuare con la sua presenza l’illusione di una possibilità di riscatto. Il tempo, solo il tempo, è in grado di creare una tale sorprendente familiarità con i personaggi di questa storia sporca e priva di catarsi. Eppure questo film, lo vedremo dopo, è un film senza tempo, dove il tempo stesso rappresenta il maggior carattere di ambiguità. Satantango è un film che si serve del tempo per decostruire il tempo stesso, confondere il giorno con la notte, un film dove l’alba e il tramonto nascono e muoiono sotto lo stesso cielo livido, alba e tramonto, giorni e notti frustati dalla pioggia hanno, in questo film, la stessa luce, o assenza di luce.

Ma questo non basta a capire come si possa investire il proprio tempo in questa avventura che è Satantango con i suoi interni oscuri anche in pieno giorno, i personaggi fissi in pose plastiche, con la schiena contro il muro e lo sguardo sfuggente e in mezzo a loro tutta quella pioggia e quel silenzio. Questa sorprendente familiarità con i personaggi, questo affascinante senso di spaesamento temporale non bastano da soli a spingerci a vivere insieme a loro il tempo dell’attesa di una redenzione che non arriverà mai e a sopportare ripetizioni, stasi, vaneggiamenti, l’infinita cantilena di Kelem, l’autista, che, completamente ubriaco, continua inneggiare l’avvento del profeta Irmias (18), oppure l’osceno smottamento di culo e tette della procace signora Schmidt che porta avanti e indietro la sua carne in una danza sempre più sfrenata che sembra non dover mai finire. Come non desistere davanti alla sequenza nella sala d’aspetto della polizia in cui, per alcuni minuti, Irmias e il compagno Petrina fissano il vuoto in attesa della convocazione del capitano della polizia (19)? La domanda che affiora irresistibile è sempre la stesa: cosa stiamo aspettando? In realtà quello che ci viene richiesto non è tanto di capire o di trovare una ragione per quello che vediamo accadere, quanto il semplice stare a guardare come funziona questa vita fottuta, come dice Futaki (20). Stare a guardare. Perché guardare e vedere diventino la stesa cosa, ci vuole del tempo, lo abbiamo detto. Ma quando questo tempo è trascorso ecco che Satantango, da dramma apocalittico sul destino dell’uomo, riflessione filosofico-cinematografica sul valore del tempo, o della fede, da saggio astratto sul nichilismo, dramma esistenzialista che inneggia alla responsabilità individuale oppure studio spietato del passaggio dal disincanto al disinganno nell’animo di un gruppo di agricoltori della campagna ungherese, diventa quello che è effettivamente, un impressionante esercizio di stile in cui la forma è investita completamente del senso sotterraneo al film.

Un catalogo affascinante di piani di ripresa, sequenze, soluzioni che organizzano il visibile secondo nuove forme all’interno di una storia scarna, dove però le parole che contano ci sono tutte, e sono quelle giuste. Su questo dovrebbe concentrarsi l’analisi del film di Tarr, sul semplice fatto che Tarr, con Satantango, ci presenta un modo nuovo, e coraggioso, di stare a vedere come funziona questa vita fottuta. Ecco allora lo scopo di questo articolo potrebbe essere quello di raccontare e continuare a far vivere il film, individuando alcune delle voci del “catalogo Satantango“, configurazioni visive, anomalie formali, personaggi, parole, attraverso le quali si snoda la storia fiume di questa comunità infernale, voci che potranno in ogni momento essere ampliate da chi vorrà partecipare a questo processo di analisi-catalogazione del film. Per rendere più agevole la lettura ho rispettato la suddivisione in 12 parti propria del film, mantenendo, ovviamente, gli stessi titoli. La parte iniziale che culmina nel nero e nella voce fuoricampo è stata indicata come prologo solo per distanziarla dagli altri 12 episodi.

Prologo

Il film si apre con un campo lungo che mostra in primo piano pozzanghere di fango e sullo sfondo la fattoria. L’inquadratura è statica e non ci sono movimenti all’interno del quadro, per alcuni istanti sembra quasi di essere di fronte a un fermo immagine, ma ecco che il bestiame poco a poco inizia a uscire dai caseggiati. Le vacche si muovono verso destra, poi verso sinistra, la macchina le segue con un impercettibile movimento orizzontale, si ferma ancora. Tutto è sprofondato nel silenzio più assoluto. L’effetto di straniamento è amplificato dall’assoluta normalità del contesto in cui si muove placidamente il bestiame. La macchina da presa accompagna il movimento delle vacche fino a un certo punto, poi, con una lenta panoramica, esplora lo spazio del racconto. L’uomo è assente dal quadro. L’irrilevante è protagonista. Muri scrostati, tetti senza tegole, vicoli sporchi e fangosi, steccati, case in rovina, galline, ancora le vacche, ancora fango. Questa esplorazione dell’ambiente precede quello che sarà il vero e proprio inizio del film, il nero su cui si imprimono le parole del narratore e il misterioso suono delle campane, parole e suono, ma non la stessa voce, che poi chiuderanno il film. Prima di questo, però, c’è da notare il soffermarsi della camera sull’ambiente, vero e proprio segno distintivo dello stile di Bela Tarr, reso esplicito nel primo episodio del film e che ricorre in varie occasioni nel corso del lungo viaggio cinematografico rappresentato da Satantango. La terra, il fango e il villaggio diroccato, e poi d’ora in avanti la pioggia, ci sono prima ancora che inizi il film, precedono la stessa voce del narratore e vedremo come nel corso di Satantango, l’ambiente, che sia esterno o interno, molte volte precederà l’entrata in scena dei personaggi e sarà ancora lì, padrone assoluto del quadro, quando loro se ne saranno andati. Dal nero che sembra aver inghiottito per un istante la realtà da incubo del villaggio emerge la voce sicura del narratore cha dà il via alla storia:

Una mattina di Ottobre, prima delle lunghe piogge autunnali che trasformano le piste in un pantano, che isolano la città e che cadono sulla terra inaridita, Futaki fu svegliato dal suono delle campane.

  1. La notizia: stanno arrivando

 Il nero poco a poco si dirada. Siamo in una camera da letto ancora immersa nell’oscurità. La finestra è al centro dell’inquadratura, solo dopo alcuni minuti riusciamo a percepire la presenza di un uomo nella stanza. È Futaki, lo zoppo, è stato svegliato dal suono delle campane, ma, di questo ci ha messo al corrente la voce del narratore, non ci sono chiese e tanto meno campanili nelle vicinanze. Quindi quel suono rimane un mistero. Così come il sogno che viene raccontato dalla signora Schmidt, di spalle, contro la finestra, amante di Futaki e, per quello che scopriremo andando avanti, di chiunque le faccia gli occhi dolci.

L’ambiente. Si apre con un mistero, e con il tema della finestra. I personaggi escono ed entrano nell’inquadratura ma non ne sono protagonisti. La camera resta fissa nella stanza poco illuminata e non segue il movimento dei personaggi che vengono quasi ignorati in una completa assenza di primi piani, un’inquadratura che presenta una staticità che relega i volti e i corpi nell’oscurità costringendoli all’anonimato. La persistenza nel quadro dell’ambiente a scapito dei personaggi, una costante del cinema di Tarr, è resa evidente e più volte riproposta all’interno del primo episodio del film. Questo elemento, unito al tema della finestra e del vedere, che caratterizza fortemente il primo episodio, ci portano ad avvicinare Satantango a un film simbolo del cinema della modernità qual’è L’avventura di Antonioni (21). Come ci fa notare Giorgio Tinazzi, ne L’avventura «Le psicologie si rarefanno, lasciano il posto alla scoperta delle cose, delle atmosfere, del paesaggio. Gli sfondi tendono a prevalere; un esempio è fornito spesso dalla costruzione dell’inquadratura, che inizia sul paesaggio prima dell’ingresso dei personaggi, e vi rimane alla loro uscita di quadro» (22). E così accade in Satantango dove finestre, tendine, pioggia contro il vetro, stanza deserta, una bacinella d’acqua dove la Signora Schmidt si lava in modo approssimativo, sono i veri protagonisti della scena. A un certo punto il marito della signora Schmidt fa ritorno a casa. Dov’era stato? A vendere il bestiame, le vacche che abbiamo visto all’inizio del film, e a ritirare il denaro dei membri della comunità di lavoratori. La fattoria verrà chiusa , ognuno avrà la sua piccola somma di denaro, la paga di un anno, e potrà ricostruirsi una vita. Futaki viene cacciato da casa dall’infedele signora Schmidt che accoglie il marito senza fare una piega. Viene cacciato ma resta a guardare e ascolta le parole che siglano un tradimento anche troppo prevedibile. Schmidt non vuole dividere i soldi, si è accordato con un altro, un tale Kraner. Entrambi, con le rispettive mogli, hanno intenzione di fuggire non appena scenderà la notte. Futaki lo affronta ed entra anche lui nell’affare.

La pioggia. Dopo lo scambio di battute tra i due, che segna proprio all’inizio del film il clima di sospetto e abiezione morale che marca tutti i personaggi della storia, la camera con una panoramica laterale, con un movimento da sinistra verso destra, sembra tornare indietro, e inseguire il rumore della pioggia, che traspare da dietro i vetri, oltre le tendine. La musica segna insieme l’avvento della pioggia e il tradimento compiuto nei confronti della comunità. Abbiamo poi un’incursione nel mondo del desiderio e dell’immaginazione da parte dei personaggi. È uno di quei momenti introspettivi che tornano all’interno del film, che si aprono e si chiudono con la constatazione del fatto che sta piovendo. La pioggia, altra protagonista del film, come il resto dell’ambiente, condiziona pesantemente la vita dei personaggi e questo è reso evidente dal discorso di Futaki nel primo episodio, da quello di un abitante del villaggio nel quarto episodio e dalle parole che Irmias rivolge alla comunità nel settimo episodio. Futaki, seduto a un lato della tavola con la schiena contro il muro, inizia a fantasticare sulla sua vita:

Piove. Andrò a sud, dove gli inverni sono più lunghi. Affitterò una fattoria, vicino a una città ricca. Starò tutto il giorno con i piedi a mollo nell’acqua calda. Oppure farò la guardia in una fabbrica di cioccolata, o il portiere in un dormitorio per ragazze e cercherò di scordare tutto. Acqua calda e niente da fare. Solo stare a guardare come funziona questa vita fottuta.

Subito dopo aver pronunciato la sua battuta, l’elemento umano, del tutto marginale nella logica della messa in scena, viene estromesso dall’inquadratura. Il tema della pioggia e dell’ambiente circostante ritorna, come abbiamo detto, nel quarto episodio: un abitante del villaggio commenta gli effetti che ha avuto la pioggia sul suo cappotto e sulla vita in generale:

Piove. Tempo di merda. Rovina ogni cosa. Guarda questo cappotto. Era soffice come il burro. E ora è così duro che per sedermi devo romperlo. Flessibilità, è questo quello che ha perso. Completamente. Passa anche il vento, è pieno di grinze. La pelle si sta sbriciolando. Vai di qua e di là e non ti puoi mettere a sedere. E ti bagni dentro e fuori. Perché il peggio non è questo. È qui dentro. Mai sentito parlare delle piogge interne, naturalmente. Lavano gli organi giorno e notte. Partono dal cuore e lavano il fegato, lo stomaco, la milza, i reni…

E ancora, il senso di costrizione e di maledizione di cui è portatrice il luogo è oggetto della predica che Irmias fa alla sua gente nel settimo episodio:

Non osate dirlo ma ora pensate con ragione che sta per arrivare un giudizio irrevocabile. Una miseria lontano da tutto ciò che è vita. I vostri progetti non arrivano a niente. I vostri sogni sono ciechi. Aspettate un miracolo che non arriverà mai. Ma di quale maledizione siamo vittime? Sono le pareti scrostate, i tetti senza tegole, i muri senza intonaco, la puzza di cui Futaki non fa che parlare? Non sono i progetti falliti, i sogni infranti, le bende sulle ginocchia che ci stordiscono?

Tra gli Schmidt, marito e moglie, e Futaki, è stato raggiunto un accordo soddisfacente: i soldi verranno divisi tra di loro e il resto della comunità andrà in rovina. Ma mentre nella cucina della signora Schmidt ci si sta dividendo il bottino arriva inaspettata una notizia: Irmias e Petrina, due vagabondi che un anno e mezzo fa erano stati dati per morti, sembrano essere risorti. Irmias, il profeta è tornato e niente sarà più come prima. La Schmidt corre al bar ad indagare, poco dopo Futaki, infiammato dal ritorno del profeta, e un irato Schmidt, che teme di veder sfumare i suoi progetti, si incamminano sotto la pioggia.

  1. Ritorno dai morti

Notiamo un distacco evidente dal primo episodio. Con una carrellata a seguire la macchina non perde mai di vista i personaggi. Irmias e Petrina sono subito in scena e percorrono la strada battuta dal vento a passo spedito.

Identificazioni. Irmias e Petrina sono stati convocati nell’ufficio del capitano di polizia per essere identificati. Siedono, immobili e silenziosi al loro posto fissando il vuoto, inquadrati di profilo, senza nessuna concessione alla nostra curiosità, senza che venga minimamente favorito il processo di identificazione di questi due nuovi personaggi. Eppure, la scena assolutamente statica e per certi versi frustrante, porta a un’identificazione con i personaggi che, senza passare attraverso il primo piano, oppure la partecipazione attraverso l’ascolto di una loro ipotetica conversazione che avrebbe il merito di svelarci qualcosa del loro carattere o almeno di farci ascoltare la loro voce, si realizza tutta nella comune esperienza, provata dai personaggi quanto dallo spettatore, dell’attesa. Irmias e Petrina attendono e così facciamo noi, senza che nulla, non i volti dei personaggi, né le loro parole, né un qualsiasi evento esterno, possano distoglierci dalla dimensione di attesa in cui sembra congelarsi la scena. Le prime parole di Irmias riguardano appunto il concetto di tempo. Tempo, eternità ed effimero torneranno anche nel resoconto sulla sua gente che Irmias detterà a Petrina nel nono episodio. A un certo punto una delle porte del lungo corridoio si apre, Irmias e Petrina vengono accompagnati dal capitano della polizia. La scena a cui assistiamo si appoggia alla consuetudine del campo controcampo di una qualsiasi scena di dialogo. Il concetto di legge, ordine, è al centro del discorso del capitano della polizia il quale affida a Irmias e Petrina un’oscura missione che li condurrà nuovamente al villaggio dove tutti li credevano morti.

L’Apocalisse. Forse questa oscura missione di cui Irmias è stato incaricato ha a che vedere con l’Apocalisse. Irmias, colui che era morto e che è tornato in vita, deve mettere alla prova gli abitanti della terra. Deve mettere alla prova la sua gente, far luce sulle loro colpe. Deve redimerli? Il film non dà risposte in merito. Ma una volta lasciato l’ufficio del capitano, Irmias, stordito da un rumore che non riesce a decifrare, forse il suono delle campane, fa la sua prima dichiarazione di intenti, dentro un bar, dopo aver bevuto rum, davanti allo sguardo attonito dei presenti e di Kelem, l’autista, che subito dopo correrà a raccontare a gli altri la sua versione dei fatti:

Faremo saltare tutti in aria.

  1. Sapere qualcosa

La scena si apre con l’immagine di Futaki alla finestra, spiato da un cannocchiale. Tutto ci riporta alla manipolazione del sapere. Dove vedere è potere e potere significa possedere la verità la vista è continuamente impedita. Lo sguardo viene portato in giro lungo i cortili infangati e deserti, torna a sbattere contro i medesimi muri scrostati e le pareti senza intonaco. Poi lo sguardo cannocchiale torna indietro fino a scoprire il soggetto guardante. In una stanza, inquadrato prima di lato, dal corridoio, e solo dopo in primo piano, incastrato in una vecchia poltrona, ansimante, intento a versarsi l’ennesimo bicchiere di Brandy e a fumarsi una sigaretta, il dottore del villaggio osserva la gente, e annota le sue osservazioni, che prendono la forma di una storia, su dei quadernini sulla cui copertina è annotato il nome degli abitanti del villaggio.

Il punto di vista. Siamo in presenza dell’autore della storia? L’ipotesi troverebbe conferma nel fatto che sarà proprio il dottore, nell’ultima scena, a determinare il famoso nero con il quale il film si era aperto, e che sarà lui a pronunciare le parole che all’inizio del film erano state pronunciate dalla voce del narratore. Inoltre l’episodio a lui dedicato mette in evidenza già nel titolo, il problema dell’istanza narrante e quello del punto di vista. La comunità , sedotta dalle parole di Irmias, si prepara a lasciare il villaggio. La sola persona tenuta all’oscuro dei preparativi per la partenza è proprio il dottore. Allo stesso tempo il dottore apre e chiude la vicenda, come fosse una sorta di narratore onnisciente che è in grado di leggere il turbamento che anima Futaki, la sua paura di venire tradito e umiliato. Inoltre al personaggio del dottore è dedicato l’episodio che racconta la sua avventura per giungere alla locanda e procurarsi il brandy e questo episodio è di importanza centrale nell’economia del racconto. È qui che per la prima volta, anche se in lontananza, udiamo le note della danza satanica che dà il titolo al film. Il tempo del racconto si stringe tutto dentro questa prima anticipazione della scena del tango satanico, scena che viene riproposta tre volte all’interno del film. La prima proprio in questo episodio.

Il dottore viene informato dalla signora Kraner che non potrà più contare su di lei per procurarsi quanto gli occorre per mangiare. La donna se ne va, l’uomo, malato, traballante, ubriaco e privo di forze, decide di sfidare il gelo e la pioggia e, con la damigiana sotto braccio, si mette in cammino. Dopo aver approfittato della gentilezza di due prostitute che gli offrono delle sigarette e che lo fanno scaldare al fuoco, lentamente, quasi agonizzante, con passo incerto, il dottore arriva in prossimità della locanda che brilla nella notte come una feroce promessa di perdizione. Sta per entrare quando viene travolto da una bambina, della quale non riusciamo a scorgere il volto, e che nella traduzione italiana viene chiamata erroneamente monello, urlante e impaurita che tiene sotto braccio un gatto morto e che lo chiama più volte. La bambina è Estike. Ha osservato la danza degli abitanti del villaggio, ha deciso di morire. In quel momento la sua storia, quella del dottore, e quella di tutti gli abitanti del villaggio riuniti nella taverna, ubriachi fradici, in attesa di Irmias, e la storia di Irmias e Petrina che attraversano il bosco (il dottore li scorge prima di cadere privo di sensi), sono unite per la prima e unica volta nello stesso tempo della narrazione, tenute strette da un unico punto di vista che è quello del dottore. Tutto quello che verrà dopo questo azzeramento della distanza tra i vari fili della narrazione, sarà un prima o un dopo, oppure una visione parziale dell’evento. Il punto di vista del dottore, invece, fornisce da solo un intrecciarsi della narrazione rappresentandone il suo centro. Attraverso il punto di vista del dottore, tutti sembrano essere spinti sulla scena che porterà al precipitare degli eventi: la morte di Estike, il crollo della fattoria, il tradimento di Irmias, l’esodo verso la tenuta abbandonata e infine il disperdersi della comunità.

  1. L’opera del ragno I

Questo episodio segna ancora una volta un passo indietro rispetto alla narrazione. L’azione si svolge non solo prima dell’arrivo di Irmias e Petrina al villaggio, ma anche prima che Kelem abbia diffuso la notizia del loro arrivo, e quindi prima che questa notizia giunga a casa della Schmidt e la spinga a correre alla taverna per controllare, prima che la Kraner decida di abbandonare il servizio dal dottore e quindi anche prima che il dottore si avventuri nella notte alla ricerca di brandy, prima che alla taverna si ritrovino tutti intenti ad ubriacarsi e a danzare, forse proprio perché sconvolti dalla notizia dell’arrivo del profeta, e quindi prima che Estike si affacci alla finestra della taverna in quella sera tragica come sempre tormentata dalla pioggia. Abbiamo già parlato di questo episodio. Fuori piove e fa freddo. Dentro la locanda, al solito, si beve. Un tale parla del suo cappotto e così facendo parla del tempo della pioggia e della vita fottuta che ognuno di loro è costretto a vivere. Ma a un certo punto arriva la notizia. Kelem, l’autista, racconta di aver visto Irmias e Petrina. L’oste si dispera e si infuria, la Schmidt, che nel frattempo è sopraggiunta al bar, rabbrividisce, la Halics rimprovera Kelem e invoca l’Apocalisse. Uno strano odore si diffonde nella locanda. È l’odore della terra.

  1. Disfatto

Ancora un balzo in avanti nell’episodio dedicato a Estike. Il tradimento dei grandi si specchia nel tradimento dei piccoli. Ed Estike proverà, così come abbiamo raccontato, a trasformare l’amore in un oggetto che si possiede, in un compagno fedele e sempre presente, anche se freddo e inanimato. Violenza e frustrazione e ansia di possesso si uniscono nei gesti allucinati che la vedono trasformarsi in uno spietato carnefice in un continuo susseguirsi di luce e ombra, fino al buio che la avvolge nella soffitta nella scena dell’avvelenamento del gatto.

La luce e il buio. Le scene che riguardano la discesa di Estike nell’abisso di orrore e violenza che poi la porteranno alla morte sono scene senza tempo, dalla luce ambigua e ingannevole. Questa alternanza di momenti di luce e di buio caratterizza l’intero film e rende ancora più difficile allo spettatore orientarsi nel magma della narrazione che opera continui balzi in avanti e indietro, salti temporali difficili da percepire, mascherati dall’uniforme luce bianca che racchiude l’alba e la sera in un’unica dimensione in cui è ancora possibile distinguere la presenza delle foglie sulla strada scossa dal vento ma che poi volge al nero in lampi improvvisi nel corso di scene che si trovano ad animare un tempo indecifrabile. Così nella scena in cui Estike si rifugia in una specie di soffitta diroccata per poter meglio osservare l’entrata della sua casa, non potremmo dire esattamente a quale parte della giornata appartenga quell’istante. Sappiamo solo che è giorno quando lei entra in casa e ruba il veleno con cui ha intenzione di avvelenare il gatto. Nella soffitta, la scena dell’avvelenamento inizia in piena luce ma nel giro di pochi istanti l’ambiente viene come invaso dall’oscurità fino a trasformare il gatto stesso, e la sagoma di Estike appiattita contro la parete che lo osserva morire, in una chiazza di buio che lentamente invade l’immagine. Poco dopo, però, vediamo Estike camminare con il gatto sotto braccio in pieno giorno, dato che le è possibile scorgere nel campo il fatto che il denaro è stato dissotterrato. Quanto Estike si affaccia alla finestra della locanda e osserva la danza satanica è notte fonda o così sembra. Ma quando lei si incammina nel bosco determinata ad uccidersi sembra essere tornata la luce. L’episodio, tragico e sporco, è una preparazione di quello che è il centro del film, la scena della danza, superiore agli altri episodi anche per la durata impressionante della scena di ballo, e anche perché è la scena che è stata preparata per tutto il corso del film, quella dove si incrociano destini dei vari personaggi. Ma c’è un’altra forma di preparazione alla danza satanica che seguirà, danza che, dal punto di vista cronologico, è già in corso mentre Estike si toglie la vita, e questa preparazione è data dalle illusioni di Estike, che ci vengono portate dalla voce narrante, parole piene di cieca speranza che, viste alla luce di quanto accadrà, o di quanto sta già accadendo, assumono il tono amaro di un’illusione che diventa l’illusione della gente del villaggio che si lascerà ingannare, forse spinta da un oscuro senso di colpa, dalle parole del falso profeta proprio in occasione del funerale della bambina.

Sì, disse dolcemente a se stessa. Gli angeli vedono e capiscono. Si sentiva serena e sentiva e gli alberi, la strada, la pioggia e la notte, tutto traspirava tranquillità. Tutto quello che succede è buono, pensava. In fondo tutto era semplice. Ripensò ai primi giorni e sorridendo capì come tutto era collegato. Sentiva che i fatti non si susseguono per caso ma che li unisce un significato stupendo, indescrivibile. Sapeva di non essere sola perché ogni cosa e ogni persona, suo padre, sua madre, i suoi fratelli, il dottore, il gatto, le acacie, la strada fangosa, il cielo, quella notte, dipendevano da questo come lei dipendeva da ogni cosa. Non c’era motivo di temere. Sapeva bene cosa gli angeli avevano preparato per lei.

  1. L’opera del ragno II

Siamo arrivati alla famosa scena del tango satanico. Tutti riuniti nell’unica taverna del posto gli abitanti del villaggio allo stesso tempo desiderano e temono la comparsa di Irmias il profeta, e presi tra la paura e il desiderio si abbandonano all’alcol, alla danza e infine al sonno colpevole in cui Irmias li sorprenderà al suo arrivo. La scena ha un ritmo ossessivo, anticipato dal racconto sconnesso e forsennato di Kelem, completamente ubriaco, il quale racconta il suo incontro con Irmias e Petrina. Il suo racconto assume anche un carattere ambiguo in quanto rappresenta la reiterazione continua di una bugia. Kelem continua a ripetere fino al parossismo di essere stato abbracciato da Irmias e di aver parlato con lui. Ma questo è falso perché, come viene mostrato nel secondo episodio, Irmias e Petrina non si accorgono nemmeno della sua presenza nel bar. Questa continua ripetizione della menzogna e della parola (tradotta in italiano come arrancavo) che in lingua originale ha un suono martellante e ipnotico, sembra quasi preannunciare il ritmo ossessivo della danza che rappresenta l’elemento di maggiore interesse dell’intero episodio. Prima che esploda la danza la madre di Estike si reca la bar per cercare la figlia. Tutti restano immobili alla sua entrata in scena, l’azione sembra congelarsi senza un vero e proprio motivo se non quello di assumere il carattere della premonizione della sventura. Subito dopo l’oste va a recuperare Futaki che, ubriaco fradicio, se ne sta fuori a prendere contro di sé tutto il freddo e la pioggia della notte. L’oste lo soccorre e lo riporta dentro. È l’unico personaggio completamente ostile all’idea della ricomparsa di Irmias nelle loro vite. In un attacco di collera invoca l’ordine: Arriverà l’ordine anche in questo posto. La scena che segue assume il valore di contrappunto ironico ai desideri dei personaggi. Nella più assoluta confusione, sfrenata e lasciva, ha inizio la danza satanica.

Movimento e stasi. Nella scena più forsennata del film la macchina si mantiene ferma. Un inquadratura statica raccoglie il movimento continuo, magistralmente orchestrato da Bela Tarr, dei danzatori e di tutti i presenti nella locanda. In Satantango c’è una continua dialettica tra movimento e stasi che sembra investire ogni singola inquadratura. Solitamente l’inquadratura rimane statica quando i personaggi al suo interno sono in movimento mentre si dinamizza in occasione di primi piani del personaggio, che rimane spesso silenzioso, fissato in una posa plastica, come a voler rendere dinamico il suo mondo interiore. Allora, solo in quel caso, la macchina prende a vagare intorno al personaggio, si sposta dietro le sue spalle, e percorre ogni angolazione possibile come nel tentativo di evocare il movimento del pensiero o della vita emozionale del personaggio. Ma in questa scena l’inquadratura è completamente statica, invasa dai gesti, dalla musica e dalla danza. Ci sono i Kraner, che ballano in maniera più composta, c’è la solita Schmidt, la stupida puttana, come la definisce Irmias nei suoi scritti, che agita incessantemente il seno enorme e l’enorme culo facendosi trascinare avanti e indietro al centro della sala dagli uomini presenti. La coppia Schmidt e Halics, continuamente insidiata da un Kelem sempre più ubriaco è al centro dell’inquadratura. Il Signor Schmidt, e la sua cruda stupidità, è seduto, accanto a Futaki che tiene il tempo battendo il bastone sul tavolo. Ogni movimento è legato alla coreografia generale. Così mentre i Kraner si mantengono sullo sfondo, la Schmidt si agita avanti e indietro, Kelem, ora sdraiato su una panca alza la gamba e prova a colpire il culo della Schmidt, Futaki batte il tempo, la Halics, che nella scena prima aveva invocato l’Apocalisse, resta seduta in silenzio, Schmitdt fa avanti e indietro tenendo un filone di pane in bilico sulla testa. A un certo punto della danza vediamo affiorare da dietro la finestra il volto spigoloso e lo sguardo sperduto di Estike mentre la danza continua con una Schmidt sempre più scarmigliata e provocante. Fino all’entrata in scena del maestro che con tono compito, propone un tango alla Schmidt. La musica ora sembra gettare un sortilegio sulla sala. Kelem comincia a cantare e a farneticare insieme Il tango è la mia vita. Mio padre è la terra, mia madre il mare. Ne mare né terra, andate a farvi fottere. Tango!

Ancora una volta, il tempo dilatato di Satantango si restringe e si assottiglia dando all’istante della danza il senso magico di un incantesimo che dolcemente fa cadere nel sonno i presenti, tutti, tranne il suonatore di armonica. E solo a questo punto, quando finalmente i poveri abitanti di quel mondo spietato sono resi quieti dall’immobilità del sonno, solo allora l’inquadratura si muove in una panoramica che ruota attorno e sopra ai personaggi. Come in una fiaba solo il suonatore, autore dell’incantesimo, resta sveglio e dice: finì così.

  1. Irmias tiene un discorso

E siamo arrivati al punto da cui avevamo iniziato a raccontare. Al funerale della bambina, Irmias tiene un discorso che scalderà i cuori degli abitanti e che li spingerà a mettere mano ai risparmi di una vita per consegnarli all’utopia di una comunità dove sia possibile una vita sicura e dove nessuno debba sentirsi impotente. L’inquadratura è occupata completamente dal volto di Irmias in primissimo piano. Il discorso che rivolge ai presenti richiama ancora una volta il tema dell’Apocalisse. Futaki è il primo a offrire il denaro, gli altri, in religioso silenzio, si uniscono al suo gesto. Si passa dal particolare del volto di Irmias ispirato dai tragici eventi di cui la comunità è stata testimone, al dettaglio delle sue mani che afferrano i soldi con cui viene acquistata la speranza.

  1. Prospettiva dal fronte

Irmias saluta i suo discepoli e gli dà appuntamento per il giorno seguente alla tenuta di Almas, un casolare abbandonato. Devono raccogliere le loro cose e prepararsi per il viaggio. Futaki svuota la sua stanza. La scelta di un’inquadratura statica e il continuo alternarsi di zone di luce e d’ombra segnano anche questo frammento. Poi gli abitanti si mettono in marcia verso la loro nuova vita. E il loro cammino presenta ancora un continuo delirante alternarsi del buio e della luce che approda al nero assoluto incontrato una volta arrivati a destinazione. Anche questa volta, come in altri momenti del film, il compito di raccontare la nascita delle illusioni nell’animo dei personaggi è affidato, più che alle loro parole, al loro sguardo. Una panoramica laterale ce li offre con gli occhi invasi dalla luce della speranza in uno sguardo che sembra rivolto al cielo, un movimento che quasi si cristallizza nel volto aperto alla fede di Futaki. Ma le ombre della notte e del disinganno riconquistano subito la scena, con un movimento inverso, la macchina sembra tornare sui suoi passi, e con una luce che tende al nero, ecco sfilare di fronte a noi gli sguardi spenti, ormai consapevoli dell’inganno, dei seguaci di Irmias. Uno sguardo tra tutti, quello della signora Schmidt, fissa la presa di coscienza del gruppo. Come abbiamo detto, ancora una volta, il dinamismo della macchina, una panoramica circolare che scruta insistentemente la Schmidt e sembra quasi indagare ogni suo pensiero, fino a piombare nel nero del sonno. Ancora, come nella scena della danza, la macchina da presa sorprendendo i personaggi nello spazio indifeso del sonno comincia ad aleggiare sopra le loro teste, correre lungo i muri, abitare lo spazio senza limiti, con dolce leggerezza, sempre accompagnata dalla musica. Mentre la camera sembra fluttuare sopra la testa e i sogni dei personaggi addormentati, torna la voce del narratore che questi sogni li racconta raggruppando personaggi, azioni e desideri in una sorta di non tempo che è espresso dall’ultimo sogno che viene narrato, il sogno di Futaki:

Era seduto su una scavatrice. La gru stava sollevando della terra. Si avvicinò un uomo e gli disse: Svelto non ti darò altra benzina. Era inutile sollevare la terra perché continuava a cadere. Riprovò ma fu inutile. Allora cominciò a piangere. Era seduto alla finestra della  rimessa. Non sapeva se era alba o era sera. Non finiva mai. Stava seduto senza sapere che ora fosse. Fuori non era cambiato nulla. Il mattino non arrivava. La notte non scendeva. Cominciava a farsi giorno. O cominciava a cadere la notte.

  1. Andare in cielo? Incubi?

La scena del discorso di Irmias viene ripetuta ma dal suo punto di vista. La folla si disperde. Irmias, Petrina e il loro complice, il fratello di Estike, che a suo tempo aveva diffuso la falsa notizia della morte dei due al villaggio, si incamminano nella direzione opposta. Petrina è nervoso e vuole lasciare al più presto il villaggio. Irmias cerca di tranquillizzarlo:

Non siamo forse dei partigiani in questa eterna lotta senza speranza per la dignità.

Arrivati in una piazza i tre vedono un mucchio di cavalli scappati dal macello. In una locanda Irmias detta il suo resoconto per il capo della polizia a Petrina che scrive:

Signor capitano. L’eternità non ha fine perché non si confronta con l’effimero, con ciò che cambia e che è passeggero. L’intensità della luce che penetra l’oscurità appare debole. Non c’è continuità. Ci sono interruzioni. Vuoti. E infine l’oscurità del Nulla.

Sempre alla locanda Irmias prende accordi per acquistare un mucchio di dinamite. Alle domande che gli vengono rivolte circa la natura della grande novità che sta per investire l’intera umanità di cui lui si fa portavoce Irmias risponde:

Non sono un liberatore. Mi consideri un triste ricercatore che studia perché tutto deve essere così terribile.

È forse questa l’oscura missione che Irmias deve compiere?

  1. Prospettiva dalla retrovia

Ancora una completa incertezza circa le coordinate temporali del racconto. Il cielo bianco latte, e dentro il casale abbandonato chiazze di buio assoluto. Infreddoliti e stravolti, la schiena contro il muro come dovessero continuamente guardarsi le spalle, gli abitanti del villaggio aspettano il loro messia. Nascono le prime liti che vengono spente dal tempestivo arrivo di Irmias il quale li informa dei nuovi progetti. La comunità non si farà, non subito almeno. La speranza viene sostituita dall’attesa di qualcosa che non arriverà mai.

E così i Kraner, gli Schmidt, il maestro, gli Halics e Futaki vengono caricati su un camion che li porterà lontano dalla pozza di fango dove si erano attardati il tempo di una vita, in preda all’inerzia e alla paura.

  1. Solo problemi e lavoro

Stazione di polizia. Due impiegati leggono il resoconto di Irmias, un ritratto spietato sulla sua gente, da cui si salva solo Futaki, il sognatore, il solo di cui Irmias possa realmente fidarsi. La prima battuta pronunciata dall’ordine e dalla burocrazia è: salta la parte sull’eternità.

  1. Il cerchio si chiude

Ma dov’era finito il dottore, dopo essere caduto nel bosco, di notte, dopo essersi avventurato sotto la pioggia ed essere stato disturbato dalle grida di Estike nella notte della danza satanica? Dopo quindici giorni d’ospedale torna a casa e si versa il suo solito brandy. Ancora e per l’ultima volta nel corso di questo meraviglioso estenuante viaggio cinematografico la macchina da presa scruta il personaggio danzando attorno alla sua forma nello spazio. Il dottore scrive:

Nessuno di loro osa uscire di casa. Devono essere a letto a russare o a fissare il soffitto. Non hanno il minimo sospetto che è questa inerzia che li lascia in balia di ciò che più temono.

A questo punto torna il suono misterioso delle campane che spinge il dottore ad avventurarsi fuori, sotto la pioggia, per scoprire un mistero che non può essere svelato. Tornato indietro il dottore si chiude in casa, sbarrando le finestre con delle tavole di legno, cacciando via, una volta per tutte la luce dall’inquadratura e consegnando le sue ultime parole al nero più assoluto, dove il viaggio ricomincia da capo:

Una mattina di ottobre prima delle lunghe piogge autunnali che trasformano le piste in un pantano, che isolano la città e che cadono sulla terra inaridita, Futaki fu svegliato dal suono delle campane…

Note

(1) Irmias. Episodio 7, Irmias tiene un discorso.

(2) Futaki. Episodio 1, La notizia: stanno arrivando.

(3) Episodio 7, Irmias tiene un discorso.

(4) Episodio 5, Disfatto.

(5) Episodio 5, Disfatto.

(6) Episodio 7, Irmias tiene un discorso.

(7) Episodio 9, Prospettive dalla retrovia.

(8) Fuori Orario (Rai tre) presentazione del film Satantango, Enrico Ghezzi: Nero senza bianco o bianco senza nero. Cinema apocalittico, cinema che esce dal dramma e diventa dramma assoluto di fantasmi senza tempo.

(9) Episodio 12, Il cerchio si chiude.

(10) Episodio 6, L’opera del ragno II.

(11) André Bazin, L’evoluzione del linguaggio cinematografico, in Che cos’è il cinema, Garzanti, Milano 1979.

(12) Festival Il vento del cinema 2006, diretto da Enrico Ghezzi, Isola di Procida (Napoli) 21-25 settembre 2006. Milanocinemaslow, Fondazione Cineteca Italiana e slw Food, Milano, 2-18 Ottobre 2006.

(13) Stefano D’ Arrigo, Horcynus Orca, Mondadori, 1975.

(14) Edgar Reitz, Heimat, Germania, 1984 e Heimat 2-Cronaca di una giovinezza, Germania 1992.

(15) Rainer Werner Fassbinder, Berlin Alexanderplatz, Germania, 1984.

(16 ) Henry Bergson, L’evoluzione creatrice, 1907.

(17) Episodio 8, Prospettiva dal fronte.

(18) Episodio 6, L’opera del ragno II.

(19) Episodio 2, Ritorno dai morti.

(20 ) Episodio 1, la notizia: stanno arrivando.

(21) Michelangelo Antonioni, L’avventura, Italia, 1960.

(22) Giorgio Tinazzi, L’avventura di Michelangelo Antonioni, in L’interpretazione dei film, a cura di Paolo Berretto, Marsilio, Venezia, 2003.

Pubblicato da Emanuela Cocco

Emanuela Cocco, editor e autrice

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