La scena del crimine di Alberto Laiseca

Pubblicato sulla rivista L’Irrequieto (Ottobre 2018) QUI

Era, Juan Carlos, un uomo buono e pacifico, incapace anche soltanto di castrare un uccello o strappare gli occhi a un elefante. In date circostanze avrebbe potuto, questo sì, votare a favore di una qualche mozione per segare le gobbe ai cammelli, ma in totale buonafede, presumendo cioè che i cammelli dovessero sentirsi molto soli e infelici – per analogia con gli uomini gobbi, notoriamente sgraditi alle donne. Insomma, avrebbe appoggiato la mozione per pura bontà di cuore, sorvolando sul fatto che ai cammelli le gobbe invece servono, per immagazzinarvi l’acqua necessaria ad attraversare il deserto. L’estetica prima di tutto.

(Alberto Laiseca, “È il tuo turno”, traduzione di Francesco Verde, Edizioni Arcoiris, 2017)

Leggere “È il tuo turno” (Edizioni Aircoiris, 2017, traduzione di Francesco Verde), il romanzo di esordio di Alberto Laiseca, è come trovarsi sulla scena di un crimine. Il corpo della narrazione classica vi giace ormai senza vita, completamente smembrato. Lo spettacolo è cruento. Non ci vuole molto a capire che la vittima, prima di morire, ha sofferto, che è stata sottoposta a tortura, che l’assassino è un mostro e nel farlo si è divertito un bel po’. Questa esplorazione è una ricognizione sul luogo del delitto.

El Monstruo.

 … avevo paura del mostro che viveva sotto il letto. Era un mostro in abstractum, che stava sotto il letto, non ne dubito, però non sbavava dalla bocca, neanche aveva una bocca o zanne, non faceva rumore. Passai decadi prima di capire che questo mostro era mio padre, e siccome gli volevo bene, non riuscivo a capire, cadevo in contraddizione.

…Il potere deve esistere, però che fare allora con il potere, perché questo, ti dico, mi tocca molto da vicino; devi sapere che ero anarchico, ero contro lo Stato. Anarchico fino alla morte e da lì passai a rispettare il potere, lo Stato deve esistere. Ossia; abbandonai l’anarchia. Molto bene: secondo Laiseca lo Stato e il potere devono esistere, che facciamo allora con loro?

 (Intervista ad Alberto Laiseca, “Revista de Cultura Ñ” a cura di Gabriela Cabezon Camara pubblicata da “minima&moralia”, giugno 2011, traduzione di Gianluca Cataldo)

Il potere è un mostro e Laiseca è il suo patologo.  La sua infanzia fa pensare a “Peeping Tom” (“L’occhio che uccide”), il celebre film horror inglese degli anni Sessanta diretto da Michael Powell, in cui un operatore cinematografico, traviato dalle torture psicologiche a cui lo ha sottoposto il padre da bambino, si trasforma in un efferato omicida, ossessionato dalla compulsione del guardare, dal desiderio implacabile di scrutare la paura sul volto delle sue vittime. Anche Laiseca racconta di un’infanzia spaventosa, vissuta “agli ordini contraddittori di un pazzo” segnata dall’irragionevole condotta paterna e delle cure “sadiche” delle governanti a cui veniva affidato. La paura, l’orrore irrazionale, l’esplorazione dei controversi meccanismi del potere, del rapporto vittima e carnefice, sono temi fondanti della sua scrittura. Da bambino terrorizzato, Laiseca diventerà poi uno dei più importanti scrittori argentini; unico e inimitabile non farà scuola, non lascerà eredi, uomo poverissimo e geniale, sarà tra i pochi a sfidare il canone borgesiano con una narrazione indomita, che lo porterà ad essere accostato da Ricardo Piglia, per la scrittura e l’immaginario della sua opera-mostro “Los sorias” (quasi 1.400 pagine, e un numero di vocaboli superiore a quello dell’“Ulisse” di Joyce) ad altri grandi come Philip K. Dick e Thomas Pynchon. In fuga dalla famiglia, e dagli studi di ingegneria imposti dal padre, Laiseca si avvicina da autodidatta alla fisica teoretica e alla musica di Wagner, mentre scopre il lavoro duro nei campi, la fatica senza scampo del vendemmiatore, le ingiustizie dei capisquadra delle cuadrillas, per poi passare al lavoro da netturbino e di impiegato di una compagnia telefonica, fino a riuscire,  fedele alla propria utopia personale, a introdursi nel mondo artistico di Buenos Aires, che negli anni Settanta si riuniva al Bar Moderno. Qui Laiseca, già inghiottito dalla voragine creativa del suo sconfinato romanzo “Los sorias”, ha modo di far leggere e di portare alla luce le sue scritture; inserti narrativi, pause, digressioni aperte all’interno del grande discorso sul potere che Laiseca continuerà a esplorare attraverso tutte le sue opere, e di cui il suo romanzo d’esordio, “È il tuo turno”, è un primo frammento. Nei romanzi e nei racconti di Laiseca la realtà mostra il suo volto deforme e insensato. Le iperboli della sua scrittura svelano la natura multiforme e ingestibile del mondo, la sua ingiustizia feroce. Pubblicato per la prima volta nel 1976, grazie all’ostinazione di Osvaldo Soriano, “È il tuo turno” è un romanzo sadico e dissacrante, che diverte e stupisce, un caleidoscopio di linguaggi e immagini violente e inattese, capace di irretire il lettore per trascinarlo in una guerra stramba in cui tutti perdono e a vincere è solo la grande letteratura.

La storia.

Quella mattina, Juan Carlos Humbolt aveva un incarico pesante. Il più pesante della settimana, in realtà. Ore e ore davanti a un microfono e a una folla di iscritti al Sindacato che pendeva dalle sue labbra, come in ascolto del Verbo Divino (mistica delle probabilità): perché era lui a distribuire il lavoro. Juan Carlos Humbolt, quest’uomo grasso e sudato che sembrava voler parlare fino al giorno della resurrezione della carne, aveva dunque il potere di dare o no da vivere alla gente là sotto. Ma un potere, beninteso, del tutto impersonale.

Siamo negli Stati Uniti ai tempi del Proibizionismo, della disoccupazione, della criminalità organizzata pittoresca e sbruffona. Siamo in un ufficio di collocamento del Sindacato pieno di persone che attendono il loro turno e sperano che l’uomo grasso e sudato dietro al microfono pronunci il loro nome e affidi loro un lavoro, un impiego qualsiasi, un’occupazione da poco, anche pagata male, che però gli consenta di andare avanti. L’uomo dietro al microfono, si chiama Juan Carlos Humbolt, è un uomo mediocre eppure è l’intermediario del potere, sta a lui annunciare chi avrà da mangiare e chi no, chi avrà un lavoro e chi sarà fatto fuori, chi potrà continuare a vivere e chi è spacciato. Juan Carlos Humbolt è anche la prima vittima di questa storia. Nel giro di pochi secondi, a poche pagine dall’inizio del romanzo, verrà ucciso a colpi di revolver da uno sconosciuto che poi si suiciderà. Incontriamo, quindi, il commissario John Craguin, incaricato di risolvere il caso: un sadico, folle wagneriano con deliri di onnipotenza, un odio sconfinato verso gli scrittori di fantascienza e il mandato di una battaglia contro le forze anti-Mozart, capaci di spingere l’intera umanità verso il ghiaccio eterno, il freddo silenzio, lo zero assoluto, il non essere. Lo seguiamo nel corso dell’indagine sulla morte di Humbolt, indagine che lui abbandonerà subito per occuparsi delle sue ossessioni, per corteggiare Irene, la sua segretaria, e per conversare di morti efferate e creative e delle biografie di mostruosi torturatori con lo squilibrato custode di un obitorio, con velleità di scrittore. Siamo nel bel mezzo di un regolamento di conti tra bande criminali, trascinati nel caos di sparatorie, attentati e cadaveri che si ammassano, e quindi siamo accanto a Nonna, il gangster che vuole distruggere tutti i sindacati, i violenti sindacati di Stato, ancora più violenti di quelli criminali, e che per farlo deve prima distruggere la mafia e prendere il potere totale. Siamo in un romanzo di Alberto Laiseca: la storia eccede, tradisce le sue premesse, la storia non si compie, non si chiude, la storia, forse, non è così importante.

Variazione e innesto.

Edgar Allan Poe: giornalista e scrittore statunitense, ancora poco conosciuto. Ingiustamente. Tempo fa, il signor Poe ebbe la gentilezza di leggermi il suo racconto Il pozzo e il pendolo. Opera a dir poco geniale, ma che purtroppo non ha ancora trovato un editore. Sento il dovere, perciò, di farne qui menzione.

(I fatti si svolgono all’epoca del Proibizionismo, quando non sarebbe stato possibile menzionare, discutendo di fantascienza, certi libri e certi scrittori. Tuttavia, per un fenomeno di proiezione spazio-temporale, di cui i personaggi non si accorgono né conservano memoria, nei dialoghi possono introdursi eventi del futuro. Quando il fenomeno ha termine, i personaggi non ricordano nulla, se non quello di cui parlavano al momento della proiezione.

Lo stile di Alberto Laiseca è segnato da un’indomabile spinta alla variazione, dalla smodata pratica dell’innesto. L’impianto della narrazione è sinfonico, il tono iperbolico, il segno distintivo è il montaggio. La vivida traduzione di Francesco Verde restituisce con precisione questo movimento incessante del discorso nella prosa di Laiseca, in cui continuamente si susseguono elementi che rimandano a diversi ambiti della narrazione.

Onomatopee da fumetto.

«Piantala di fare il siciliano che non sei. Lo parli anche da schifo il dialetto».
(Larghissimo sorriso: come assurgendo, in stato di grazia, alle sfere dell’armonia celeste – teologia da Medioevo).
«Iu sugnu u capu di “Nannuzza”» (Ironicamente). «“Mamma” non perdona, “Nannuzza” sì».
Trash, trash, trash, trash.
Quattro fori con revolver silenziato, sua arma prediletta. Quattro suoni smorzati, come colpi su un bidone della spazzatura.
A parte teatrali.

«Phillip Harper: presentarsi domattina alle sei in via tale numero tale. Timoteo Rodríguez: presentarsi stasera al ristorante in viale…». (“Che caldo! Mi farei volentieri una birra!” / color oro: come il manto, forse, dell’omonimo imperatore?). «Frederick Heller: presentarsi domattina alle sei, dodicesima strada…». (“Meno male che ho quasi finito e tra un po’ me ne torno a casetta; ho già detto a Catherina di aspettarmi con un bel boccale pieno: boccale le ho detto; non bicchiere, bottiglia o lattina. E lei sa quanto mi girano se non fa come le dico. Lo sa che ci tengo, che è una mia fissazione: un boccale e nient’altro. Io, la birra, la bevo solo così”).

Il romanzo prende le sembianze di un copione cinematografico e l’esposizione diventa la didascalia di una sceneggiatura che indica perfino i piani di ripresa…

(Primo piano mentale di un sindacalista grasso e sudato, che distribuisce lavoro agli iscritti. Un uomo gli si fa incontro e gli spara quattro colpi. Poi si suicida).

…e fornisce indicazioni dettagliate circa il montaggio dei frame all’interno della sequenza, arrivando a definire anche parametri prettamente cinematografici come il rapporto tra il tempo del racconto e la durata delle immagini.

Tutta una trama di raffiche e di corpi: una continua frammentazione di piani; uomini che saltavano, raggiunti dalle pallottole, chi a velocità normale chi al rallentatore, e una metamorfosi incredibile: l’assurdo zoologico di corpi che rimpicciolivano fino a trasformarsi in sorci, mentre le canne dei mitra rimanevano le stesse, spappolandoli a un metro di distanza. E il tempo anche lì alterato, perché si vedevano i sorci volare in pezzi, ma non velocemente, come ci si aspetta quando si spara a dei sorci a breve distanza: lentamente invece, molto lentamente, come quando si fa cadere un pugno di polline sulla superficie tranquilla di un lago…”

Anche la musica è una similitudine costante, un rimando continuo nelle parole dei personaggi o del narratore.

«Mi piace sparare col silenziatore. Non tanto perché è più pratico, ma perché è più estetico. Non sempre sono dell’umore giusto per il suono singhiozzante del mitra». (Come a voler chiarire): «La bemolle, la tonalità tragica di Mozart».

Di lì a qualche minuto, il sordo crepitio di un mitra copre ogni altro rumore. Un suono che a “Nonna” di solito fa dire: «Lo preferisco all’esplosione sinfonica dei Preludi di Liszt».

Voglio che i proiettili dei mitra siano tutti strofinati con l’aglio. Così faranno più male. Le quattro stagioni di Vivaldi». (I suoi uomini non avevano la minima idea di chi fosse Vivaldi, ma recepirono perfettamente l’ordine, e strofinarono le pallottole con l’aglio).

Ogni fase della caccia ha la sua musica particolare. Alle scene, spesso, si accompagna un motivo musicale che ha valore di sottolineatura espressiva.

«John… è pieno di giornalisti!». «E allora? Wagner non piace ai giornalisti?». «Ti faranno cacciare». «No che non lo faranno. Da’ l’ordine. E guai a loro se si sbagliano di nuovo con la Cavalcata delle Valchirie. Ogni fase della caccia richiede la sua musica particolare. Quella e nessun’altra».

Il commissario abbandona la scena del crimine: a sirene spente per una volta. Un isolato dopo l’altro / l’Entrata degli dèi nel Walhalla / l’auto di servizio che silenziosamente lo porta lontano dalla morte del sindacalista, e la musica dell’Entrata degli dèi nel Walhalla di Richard Wagner.

Una colonna sonora che oscilla tra la presenza giustificata e l’incursione delirante ed extradiegetica. Come nel maestoso finale del romanzo, nella scena in cui viene raccontata la morte di Nonna.

 …mentre la pallottola penetra, sempre lentamente, diretta al cervello, comincia a risuonare una musica maestosa, un requiem come nemmeno Brahms seppe comporne. Lo Strömt herbei, ihr Völkerscharen di Peters, che i soldati cantavano durante la Prima guerra mondiale, e lui che cammina con la sua donna in un campo inondato dal sole, lui che ruppe il culo a tutti perché la mia donna non si tocca, gli stivali che battevano il terreno a passo di parata il giorno che i suoi uomini massacrarono duecento figli di puttana di cui il mondo non sentirà la mancanza; lui con la ragazza della festa, quando lei gli disse che era un bell’uomo, mentre la pallottola adesso penetra più rapidamente e già raggiunge il cervello, e continua a salire, sempre più veloce; e i soldati della Grande Guerra che cambiano il testo a Strömt herbei, ihr Völkerscharen, che all’inizio è solo un tema musicale, lo stesso che poi si ripete, accompagnato da un coro di voci femminili… E lui che reclina la testa all’indietro per il colpo sparatosi in bocca, e la musica che ora ha smesso di suonare.

La musica è anche regia, un contrappunto musicale che dirige il ritmo delle parole e indirizza i movimenti dei personaggi.

SCENE CLASSICHE. (Tutta questa parte deve essere letta in contrappunto a quella in cui Leporello decide di non servire più Don Giovanni, di non più faticar per chi nulla sa gradir).

 Oppure assume il ruolo di commento sonoro che agisce come presagio.

E quando la parte superiore del sole spuntò, come un grande orso peloso tra i ghiacci, gli parve di sentire l’incipit dello Zarathustra di Strauss. L’estasi fu tale che quasi cadde in ginocchio.

Invadente e anarchico, il narratore lascia ovunque traccia del suo passaggio, segnalando senza alcun riserbo la sua presenza alle spalle di chi legge, anche allo scopo di fungere da guida nel testo, un accompagnatore che ha il compito di indicare con fare divertito le sue stesse trovate, motivando le sue scelte, annotando ai margini la giusta espressione da accompagnare a un dialogo, ponendo l’accento sulle incongruenze, le contraddizioni di una frase o di una parola per denunciare il suo carattere implausibile.

Cesure, innesti, anacronismi, parodie, didascalie cinematografiche, nuovi vocaboli, a parte teatrali, vaneggianti note a margine: Laiseca riesce a turbare, divertire o raggelare il lettore con questi ed altri strumenti di tortura, che hanno come effetto lo stravolgimento dell’ordine narrativo, l’introduzione di inattese illogicità nel discorso, di repentini cambi di forma e tono della prosa, di tagli profondi e deviazioni inspiegabili della trama che si aprono improvvisamente nel bel mezzo di una frase.

Morte dell’architrama.

“La struttura è una selezione di eventi tratti dalle storie esistenziali dei personaggi, e composti in sequenza strategica per causare emozioni specifiche ed esprimere una specifica visione della vita.”  (Robert McKee, Story)

Il commissario ispettore John Craguin aprì la scatola di fiammiferi per accendersi un sigaro. Non credette ai suoi occhi, tanto che chiuse e riaprì la scatola. Guardò dentro. I fiammiferi sembravano tronchi accatastati, visti da una grande altezza. «Figlio mio: ascolta attentamente ciò che ha da dirti un padre amorevole. Subirai una serie di tormenti: carcere duro, fuoco e tratto di corda; e se questo non basterà a redimerti, ti farò rinchiudere in un barile di Amontillado. Finché non ti correggerai e pentirai. Sei avvertito. Così ha deciso il tuo tiranno». «Ma di cosa…!? Di cosa devo pentirmi!? Che ho fatto!?».

 (Alberto Laiseca, “È il tuo turno”, traduzione di Francesco Verde, Edizioni Arcoiris, 2017) 

Per cominciare si tratta di stabilire chi è la vittima, di tracciarne il profilo. La forma della narrazione classica è archetipica, armonica, proporzionata, la sua postura è composta. In “È il tuo turno” il modello con cui la scrittura di Alberto Laiseca si confronta, a cui si oppone, è quello che il famoso story editor americano Robert McKee nel suo saggio “Story” definisce architrama, una configurazione classica della storia che si fonda su alcune marche distintive irrinunciabili. Al principio, centro nevralgico di questa architettura, c’è un protagonista forte dalla motivazione salda, e con un obiettivo, chiaro e ben definito che rappresenta il suo desiderio, conscio ed inconscio. La narrazione classica è narrazione del desiderio. Vedere, sapere, possedere l’oggetto del desiderio e il mondo di finzione: questa la posta in gioco. Una vocazione al controllo e all’immedesimazione che parte dal piacere e spinge la storia verso due linee di racconto, una esterna o di plot e una interna o relazionale. Vivere l’avventura dentro e fuori di te per vivere il cambiamento: questo lo scopo. Un viaggio nel desiderio. Affinché il racconto mantenga il suo potere su chi guarda è necessario che si alternino tensione e rilascio, è necessario che ci sia un impedimento all’azione. Per scongiurare una rapida assuefazione, la storia mette in campo un antagonista che si oppone all’eroe. La forma classica coltiva l’ostacolo ponderato, la sofferenza utile, il viaggio simile a una battaglia, un intralcio, quindi, utile allo scopo, anche questo dalla natura doppia, esterno e interno, capace di animare il conflitto alla base della narrazione. La forma classica vive nell’equilibrio della lotta e si manifesta come intreccio coerente, costituito da eventi raggruppati in sequenze comprensibili, causalmente connesse che approdano a un finale chiuso, in cui tutte le linee di racconto si risolvono, portando al cambiamento certo e irreversibile del personaggio principale. Tutto questo – l’architrama, il design classico del racconto, con le sue convenzioni e le sue stazioni obbligate– costituisce il corpo narrativo su cui Alberto Laiseca infierirà. In “È il tuo turno” l’architrama viene deformata, spezzata, divelta nelle fondamenta.

(A volte, per puro delirio, ordinava di rubare un cadavere in città).

«Ha confessato il morto?».
(Jack McGrovern):
«Nega tutto, e nella maniera più ostinata».
«Continuate a interrogarlo. Tenete la luce sempre accesa. Non dategli da bere, e da mangiare unicamente lardo salato. Il pozzo e il pendolo. E se insiste con i suoi vecchi schemi e le sue idee retrograde – radio Pechino –, allora assaggerà la picana. Nell’ombelico. E più in basso».
«Sai, John…».
«Che cosa?».
«Non credo che confesserà. È di quelli che non parlano».

La materia stessa del racconto così adulterata finisce per esplodere, perde ogni parvenza di unità e armonia per trasformarsi in un’antitrama eccentrica in cui la comprensione non è garantita, non nella forma che abbiamo data per scontata. La metodica demolizione di questa configurazione, compiuta da Laiseca con feroce determinazione, realizza un altro narrativo, qualcosa di unico e inimitabile, una variazione antistrutturale che irride il modello e che va interrogata, a partire dal suo centro nevralgico: il personaggio.

Identità narrativa.

“Noi non possiamo chiederci che cosa sia più importante, se la struttura o il personaggio, in quanto la struttura è il personaggio ed il personaggio è la struttura.” (Robert McKee, Story)
“E tuttavia, quando presenterà al suo direttore l’articolo di condanna, ogni giornalista si sentirà rispondere più o meno così: «Il tuo pezzo è magnifico, Howard. Devi riscriverlo, però. Così non va». (Occhi e bocca spalancati, fingerà di non capire). «Cosa? Ma perché?». «Perché non va». «Chi lo protegge?». «Si protegge da solo». «Non capisco». «Non c’è bisogno che tu capisca, Howard. Anzi, accetta un consiglio. Continua a non capire. Per il tuo bene».”
“Lo chiamavano, in principio, Earl “Poligono di Tiro” O’Connor, ma a poco a poco era riuscito a far dimenticare quel nome, al punto che tutti lo conoscevano adesso come “Nonna” o “Nannuzza”, quasi si fosse sempre chiamato così. (…) Nessuno capiva del tutto “Nannuzza”, e questo gli aveva salvato la pelle in più di un’occasione.”

Chi è il protagonista di questa storia? Chi è il suo antagonista? Difficile stabilirlo. In “È il tuo turno” i due ruoli hanno nomi diversi ma sono lo stesso personaggio, che risponde al nome di John Craguin, delirante commissario ispettore, e a quello del criminale Earl “Poligono di Tiro” O’Connor, detto Nonna. Se è vero che il personaggio non è la sua biografia ma le la somma delle scelte che compie una volta giunto al suo punto di rottura, e che la vera caratterizzazione va oltre la maschera e che il personaggio si rivela quando desidera, agisce e reagisce al sistema di relazioni in cui è immerso, allora possiamo affermare che Craguin e Nonna rappresentano un’unica indistinguibile identità narrativa. Il protagonista di questo romanzo è un personaggio doppio, controverso, anti-classico, un personaggio incapace di evolvere, che non ha l’incarico di portare avanti la trama, di farla funzionare, ma che, al contrario, ha il mandato di farla esplodere.

Il commissario. Lo si è visto dare la caccia a un killer asserragliato in un edificio, al suono dell’Entrata degli dèi nel Walhalla di Wagner e illuminando la scena con fari di diverso colore. Inorriditi i giornalisti, entusiasti i suoi uomini (con poche eccezioni). Dopo l’accaduto, i politici reclamano la sua testa. Ma quando tre giornalisti – i più esagitati – periscono in circostanze misteriose, e due politici saltano in aria mentre mettono in moto le loro Porsche, l’ondata di sdegno improvvisamente si placa. E lo slogan del giorno diventa: “Lasciare le cose come stanno”.

Da allora, “Nonna” divenne implacabile, freddo, artistico e feroce: per raddrizzare la natura… umana, secondo l’aforisma di Wilde. Al contrario, avrebbe commentato Alice, quella dello specchio.

Entrambi implacabili, freddi, artistici e feroci, i due personaggi condividono la stessa visione del mondo, la stessa utopia e lo stesso nemico.

Si sentì gelare il sangue al pensiero che stava veramente per uccidere “Nonna”. “Figlio, figlio di mille puttane, uscito dal ventre di una sola. Sei tu che mi obblighi a farlo”. Pensò alle poderose forze anti-Mozart che lo circondavano, pronte a dar scacco al re: “brava gente”, “politici responsabili” impegnati a vincere le elezioni, mentre il nudo globo della Terra gravitava verso le regioni del ghiaccio eterno, dove il sistema delle elezioni terrestri non gli sarebbe servito a evitare l’orrore dello zero assoluto.”

“Nonna” piombò a sorpresa nel mezzo di una festa di sindacalisti, o qualcosa di simile. Arrivò con tutti i suoi gangster armati di mitra. Tirò fuori un calice che si era portato dietro, lo riempì con uno dei liquori che abbondavano nel locale, lo alzò e, rivolto ai presenti che tremavano di paura, disse:
«Brindo a voi, i veri padroni della società. Brindo all’egida del potere sindacale. Napoleone dichiarò una volta: “Nello stesso modo in cui rompo questo calice, distruggerò la Chiesa cattolica”». Scagliò il calice contro la parete, ma quello rimbalzò, senza rompersi. «Ora, siccome non credo alle profezie, io qui dichiaro solennemente: nello stesso modo in cui rompo questo calice, distruggerò tutti voi».

 Nel romanzo le forze antagoniste si alleano con l’eroe della storia.

«Sono un mezzo. I soldi per me sono solo un mezzo».
«Così mi commuovi».

«John, unisciti a me». La frase, pronunciata con un filo di voce, risuonò nelle orecchie del commissario come un colpo di revolver. Il fiume aveva cambiato corso: i suoi flutti, adesso, cominciavano a farsi pericolosi).
«Ma dici sul serio?».
«Tu che ne pensi?». (E dopo): «Siamo gli unici in città che hanno capito qual è il problema».

Laiseca neutralizza attraverso la caratterizzazione dei due protagonisti un caposaldo della narrazione classica: l’arco drammatico organizzato intorno al conflitto. Rimuovendo dalle sue tappe il tradizionale momento culminante, inteso come lotta all’ultimo sangue tra il bene e il male, tra l’eroe e il suo nemico, la storia non ha più il suo andamento progressivo ma gira attorno a se stessa, perde la sua direzionalità per diventare altro.

Non si erano mai incontrati di persona, ma a volte si scambiavano messaggi anonimi, dallo stile inconfondibile, tanto che ciascuno indovinava subito il mittente. Per esempio: all’epoca della famosa lotta per guadagnarsi il rispetto dei mafiosi, “Nonna” ricevette questa nota: Annientali. Fagli cacare sangue. Io volterò la testa dall’altra parte. Così, chiaro e conciso. Sebbene fossero in guerra, tutto rimaneva tranquillo lungo il confine. Erano come pugili che si studiano a distanza, cercando di evitare lo scontro frontale.

Stringevano frequenti alleanze e patti di non belligeranza. Il commissario teneva “Nonna” in grande rispetto e considerazione.

E un giorno disse:

«Quando uno non sa decidere da che parte stare, alla fine tradisce. Non so perché, ma quel figlio di puttana mi piace».

I due personaggi protagonisti del romanzo combatteranno e alla fine uno dei due verrà eliminato, ma in quel momento ci sarà solo un semplice passaggio di testimone non un riassetto del mondo, e l’affermazione di un nuovo asse di valori etici. I due protagonisti della storia sono entrambi incomprensibili ai loro sodali, coltivano relazioni segnate dal dominio della loro delirante volontà, entrambi inarrestabili rappresentano l’uno per l’altro un alleato più che un nemico.

“Per un istante infinitesimale decise di schierarsi gioioso al fianco di quel pazzo e di seguirlo fino alla morte.”

L’intera orchestrazione dei personaggi del romanzo replica lo stesso schema che vede i protagonisti agire in completa assenza di ostacoli credibili. Nessuno si oppone a Craguin e a Nonna e il loro essere invincibili, l’impossibilità di vederli coinvolti in un conflitto equilibrato, segna una distinzione importante dal protagonista classico. La forza di quest’ultimo, infatti, è data dalla natura delle prove che deve sostenere, dalla potenza della sua motivazione e dalla sua capacità di reagire e quindi cambiare nel corso della storia.

Nel mondo narrativo di Laiseca non c’è redenzione, non c’è una progressione continua del conflitto, non c’è scopo e non c’è valore in gioco che porti a una sintesi. Il personaggio laisecano è invincibile nella sua resistenza al cambiamento, impotente nel suo disincanto, irrazionale nelle scelte. Il suo percorso lo porta a manifestarsi come mistero capace di suscitare nel lettore un’attrazione illogica e istintiva. Non si tratta di capire o di imparare la lezione, i personaggi di Laiseca conducono una battaglia per l’essere di cui non riusciamo a intravedere i confini, qualcosa da cui dipende la loro sopravvivenza, essenziale eppure incomprensibile. Dove la forma classica cerca di riprodurre e mimare il senso, dove l’architrama si preoccupa di fingere la connessione causale tra gli eventi, la scrittura di Laiseca ci dà una potente rappresentazione della sua assenza. Se niente ha senso, se le parti del tutto non hanno un vero legame tra loro, allora l’esperienza del racconto non serve a maturare un cambiamento e il personaggio è destinato a replicare all’infinito la sua mancata evoluzione nel corso della storia. I personaggi di Laiseca passano così attraverso il conflitto ma questo non li rivela, al contrario, li conferma nella loro natura, nella loro maschera. Il commissario ispettore John Craguin e il suo alter ego criminale Nonna, sono implacabili e non inclini al compromesso, ma questo non fa di loro i tipici personaggi cardine della narrazione classica, perché il loro modo di procedere nella storia non è direzionale.  Craguin e Nonna non compiono i passi prestabiliti che gli occorrono per arrivare a dimostrare una premessa, perché loro stessi sono la premessa, loro motivazione a combattere non è il tentativo di risolvere una contraddizione interna ma, al contrario, la battaglia per la sua affermazione.

Non sarò io a cambiare ma il mondo, sembrano urlare di continuo, in preda al delirio anarchico che li caratterizza. La loro motivazione può apparire irrazionale, e in parte lo è, ma la qualità di questo irrazionale non è casuale o fiacca, non è priva di senso. La motivazione laisecana è un irrazionale fatto di desiderio e impotenza, così connessi da somigliare a un urlo, a una risata sguaiata, un colpo che i personaggi esplodono contro loro stessi per ferire il mondo, un colpo che va sempre a segno.

Il dialogo: la schermaglia eccentrica.

«È vero che sulla bandiera trotskista ci sono un piccone e un martello incrociati? Cioè come sulla bandiera russa, però alla rovescia?».
(L’altro, evidentemente un trotskista):
«Noo. Chi te l’ha detto? È una balla. Ha il 4 della Quarta Internazionale, ma per il resto è uguale a quella sovietica, con la falce e il martello incrociati. Da dove salta fuori questa storia del piccone?».
«Ah, no? A me hanno detto che il piccone era per ricordare il modo in cui uccisero Trotsky: con una picconata alla testa».
«Noo, che barbarie. Nessuno mai celebrerebbe una cosa del genere».
«Be’, Gesù morì in croce, e quella croce i cristiani la venerano…».

Come parlano i personaggi di “È il tuo turno”? Mentre il dialogo del modello classico è improntato all’economia narrativa, all’efficacia drammatica e alla progressiva rivelazione di un senso nascosto delle cose, le spire del dialogo in cui precipitano i personaggi di Laiseca hanno un movimento vorticoso, un carattere dispersivo e anarchico, una costruzione che fa del chiacchiericcio disordinato, della conversazione irrazionale e della digressione, i suoi segni distintivi.  In questi dialoghi il carattere dei personaggi, i loro obiettivi e desideri, non emergono attraverso una calibrata rivelazione che passa dall’interiorità del personaggio alla manifestazione esterna dei suoi obiettivi: le due dimensioni sono, al contrario, sovrapposte. Una disordinata indomabile vitalità, una continua fuga da ogni parvenza di compostezza, li attraversa. Tra il detto e il non detto si annida l’irrazionale.

“(A volte, per puro delirio, ordinava di rubare un cadavere in città).
«Ha confessato il morto?».
(Jack McGrovern):
«Nega tutto, e nella maniera più ostinata».
«Continuate a interrogarlo. Tenete la luce sempre accesa. Non dategli da bere, e da mangiare unicamente lardo salato. Il pozzo e il pendolo. E se insiste con i suoi vecchi schemi e le sue idee retrograde – radio Pechino –, allora assaggerà la picana Nell’ombelico. E più in basso».
«Sai, John…».
«Che cosa?».
«Non credo che confesserà. È di quelli che non parlano».”

Nei dialoghi di Alberto Laiseca nulla è indicibile e tutto è esposto, la spinta narrativa che dovrebbe giustificarli è solo un effetto collaterale e le parole, più che alla realtà, si adattano alle deliranti immagini mentali dei personaggi.

Nello scambio di battute tra uomo e donna si avverte l’impronta della screwball comedy, la commedia eccentrica americana della fine degli anni Trenta. Tra uomo e donna non esiste comunicazione che non sia attraversata dall’UST (Unresolved Sexual Tension), una corrente di attrazione sessuale non subito manifesta, che porta a parlare d’altro per mascherare e insieme alimentare il desiderio. L’amore è una guerra sadica e questo Laiseca lo sa bene.

“(il commissario) … annusa con intenso piacere il fiore appena acquistato:
«Ah…!».
(Lei interrompe il lavoro. Prima ancora di salutarla, le infliggerà, come al solito, un sermone contro la fantascienza. E perciò lo anticipa):
«Oggi non ho niente con me. Non ha motivo di provocarmi».
(Lui smette di deliziarsi col fiore e la guarda negli occhi, sorpreso):
«Come dice?».
«Dico che oggi non ho con me libri di fantascienza».
«Ah, ecco. La prossima volta le porterò io un paio di libri. Così, perché si faccia una cultura».
(Lei, offesa e lusingata al contempo):
«Sì, mio signore».
(Lui, soddisfatto come un orco al quale abbiano appena detto «orco» sul muso):
«Bene bene». (Fa per entrare nella sua stanza, poi però cambia idea).
«Che ne pensa dei sindacalisti?».
(Lei socchiude gli occhi):
«Ieri era contro la fantascienza. Oggi ce l’ha con i sindacalisti?».
«No, no, non ho niente contro di loro. Glielo chiedo solo perché ne hanno ammazzato uno, qualche ora fa».”

Le scene che vedono il commissario dialogare con la sua segretaria, che a un certo punto della storia diverrà la sua donna, offrono una rappresentazione di questa guerriglia dialettica intorno al tema della seduzione come conquista sadica, dell’amore come avventura, inscenando il rischio di perdere il controllo diventando una vittima o la possibilità di impersonare il ruolo di carnefice esercitando il proprio potere sull’altro. Quando il desiderio sessuale si impone tra due personaggi il dialogo sconfina nel nonsense.

«Sei gioia eterna. A te reco il saluto del falcone egizio».
(Lei, però, continuava a tenergli il muso).
«Ti ribelli al tuo signore?».
«Il mio signore ha una voce spaventosa».
«Se mi privassi del tuo occhio, di quell’occhio bello che hai sotto l’ombelico, ne morirei all’istante». (Lei cominciò ad ammansirsi). «Non capisci che, se posso vedere, è solo grazie al tuo occhio? Non privarmi della luce del sole. Senza il tuo occhio sarei soltanto un cieco che cammina per strada a tentoni, scoordinato e caotico, battendo a terra il suo bastone bianco». (A queste ultime parole lei sorrise.) «Sopporteresti che il Sig. Commissario Politico del Sud si trasformasse in un vecchio col bastone…?». (E qui lei si intenerì).

In un altro momento:

«Quanti occhi ci sono nella tua caldera?».
«Due» risponde Irene soavemente, ma senza sorridere.
«Bene! Ma dei due solo uno è legale. L’altro no».

La guerra uomo-donna non è qui il pretesto per drammatizzarne il carattere e il meccanismo delle battute sembra girare a vuoto, mentre i personaggi si concedono compiaciuti gli uni a gli altri senza servire la trama o il lettore. Il dialogo si dilata, aprendosi a lunghe digressioni che realizzano un effetto di sospensione comica e sembrano rimandare in modo ironico e parodistico alle infinite schermaglie amorose in cui l’appagamento sessuale è sempre dilazionato, tipiche delle commedie eccentriche americane.

«Verresti a letto con me?» (come se le stesse proponendo di andare a un concerto con musiche di Mozart).
«Ah sì, mi piacerebbe. Che meraviglia!».

E lui passa a parlare d’altro, come se niente fosse, come se lei gli avesse appena detto che tempo farà.

I dialoghi tra il protagonista maschile e il suo antagonista sono, invece, intrisi dei motivi propri della narrazione di genere, l’amicizia virile, la stima e l’ammirazione per il nemico, la condivisione appena prima della guerra.

«Salve, “Nonna”».
«Sei qui per qualcosa in particolare?».
«Solo per guardare l’acqua».
«Che città la nostra, eh?».
(Prima di rispondere, il commissario scosse il suo sigaro, facendo cadere in acqua un grosso pezzo di cenere):
«Sì. Un vero troiaio». (E dopo una pausa): «“Nonna”, non tirare troppo la corda. Te l’ho già detto. Non sono qui per parlare. Voglio solo guardare l’acqua. Non provocarmi».
«Ognuno segue il suo karma, camerato commissario. Karma, che non è destino come tutti credono, ma “carattere” personificato».
«Non prendermi in giro». (Volendo significare “non rompermi le palle”).
«Non ti prendo in giro». 

In ogni caso i dialoghi di Laiseca non sono mai direzionali o di servizio, le parole sconfinano, conquistano uno spazio superiore a quello richiesto dalla scena, oppure costituiscono solo un intermezzo che ripropone, come un motivo musicale, la follia attraversata dalla tenerezza o dal cinico umorismo che contraddistingue i personaggi del romanzo.

Come il breve dialogo tra il commissario e la bambina che vende i fiori.

“ Scende dall’auto e vicino al palazzo della questura (o come diavolo si chiama negli USA) scorge la ragazzina che vende fiori. Tutti i giorni la saluta e compra qualcosa.
«Chi è la più bella del mondo?».
(La ragazzina, candidamente):
«Gabriela» (è il suo nome).
«Perfetto. E adesso un po’ di catechismo: chi è l’uomo più bello e delirante del mondo?».
«Il signor commissario ispettore».
«Saluta il mostro».
(Con la sua vocina ingenua e infantile, sollevando un braccio):
«Heil Hitler».”
O lo scambio di battute tra il commissario e i suoi uomini.
“Un mucchio di gente è stata uccisa e gettata nel fiume. Il commissario e i suoi detective assistono alle operazioni di dragaggio. «Continuate la pesca funebre». Dopo questa frase, il commissario tace, soddisfattissimo. In totale i cadaveri sono quattordici; appurato che non ce ne sono altri, un detective gli chiede:
«E adesso che facciamo, signore?».
«Ricontiamoli. Ma stavolta al contrario. Così forse arriveremo al punto in cui erano ancora vivi».
(Sorride, mentre gli altri lo osservano, stupiti dal suo cinismo).

Nelle sue diverse manifestazioni il dialogo, proprio come il personaggio, si divincola tanto dall’obbligo di servire la caratterizzazione quanto dalla necessità di condurre avanti la storia, o di veicolare elementi espositivi. Il suo compito sembra essere la resa di una sola voce, quella del potere, e la manifestazione di un solo racconto, quello del sistema di sopraffazione che inquina i rapporti tra gli uomini. In questo senso i dialoghi di Alberto Laiseca sembrano voler comunicare, con la loro indisciplinata irrazionalità, una latenza di significato immediato che è nella relazione e quindi nel mondo.

Il genere: tradimento e irrisione della detection.

Craguin ebbe un fremito. Cercò di ascoltare quello che “Nonna” gli stava ancora dicendo:
«…ed è per questo che odio i film su Eliot Ness e i suoi “intoccabili”. Dove il cattivo è sempre il Sindacato del Crimine, come se gli altri sindacati, quelli “buoni”, non fossero altrettanto criminali con la loro violenza contro la società e la libertà personale dell’individuo». (A bruciapelo): «John, lasciameli distruggere».
“È il tuo turno” si presenta come una storia ascrivibile alla narrazione detection, con una impostazione di base, vedremo solo apparente, che colloca il romanzo nel genere hard-boiled, caratterizzato da una commistione tra una linea di racconto di tipo investigativo e sequenze di azione violente in cui il ricercatore-detective partecipa in modo diretto allo scontro. Nel romanzo, i richiami al modello del cinema classico americano sono molti ma già dalla prime scene di azione è chiara la volontà dell’autore di fare parodia del modello. Nella sequenza in cui Craguin arresta un criminale viene fatto un riferimento esplicito alla messa in scena cinematografica di questa operazione. Craguin dirige l’evento con tanto di colonna sonora e luci di scena.

“Il commissario abbandona la scena del crimine: a sirene spente per una volta. Un isolato dopo l’altro / l’Entrata degli dèi nel Walhalla / l’auto di servizio che silenziosamente lo porta lontano dalla morte del sindacalista, e la musica dell’Entrata degli dèi nel Walhalla di Richard Wagner. Fari di vario colore, accesi per ordine del commissario, illuminano l’edificio in cui il killer si è rifugiato. Il fascio di luce dei riflettori colpisce la parte alta dell’edificio, come uno zeppelin della Prima guerra mondiale. «Ormai è in trappola» dice il commissario, sceso dall’auto quindici minuti fa insieme a uno dei suoi uomini. «Più luce rossa»”

La caccia avviene in sincrono con la musica, come in una sequenza cinematografica. La spettacolarità dell’evento ha la meglio sulla verosimiglianza.

“D’improvviso lo vedono. Il killer cerca di scappare, ferito e terrorizzato. La luce di un riflettore, gialla come la sua faccia, lo illumina in pieno. Un giornalista si avvicina a John, che segue i movimenti della preda in sincrono con l’Entrata: «Perché non gli intimate la resa, invece di mandare questa musica?». «Faccia silenzio. Sta intralciando un’operazione di polizia». L’Entrata è finita. Il prossimo disco è Musica del Fuoco Magico. I suoi uomini sanno già cosa fare. È il segnale convenuto. Sparano tutti qualche colpo d’avvertimento. E quando il killer risponde al fuoco, loro lo crivellano sulle note del tema di Wotan, alla luce rossastra di un riflettore.”

Nulla è verosimile, tutto è spettacolare nel modo in cui il potere della legge fa la sua comparsa nelle scene del romanzo. A guardarle attentamente valutandone i dettagli abbiamo l’impressione che Laiseca non abbia fatto altro che trasportare in letteratura gli artifici della regia propri di quel cinema, per sfruttare e rendere evidente l’insincerità che è nella sua struttura narrativa. In queste scene Laiseca sembra voler portare alla luce la grande menzogna spacciata dalla narrazione classica americana in cui la dittatura del potere autoriale, che tutto dirige e manovra, ci dà l’illusione di poter avere il pieno controllo sulle nostre vite, di poterle piegare ai nostri desideri. La grande magia della narrazione classica, una narrazione così forte da essere divenuta un modello pervasivo di rappresentazione della realtà, viene qui derisa e messa alla berlina. La storia che ci viene raccontata, sembra dire Laiseca, la credenza che la verità prima o poi trionfi, che sia possibile essere ognuno l’eroe della propria avventura, che la giustizia vinca sempre, questa storia classica così soddisfacente è una storia falsa e infantile, una bugia a buon mercato che ci fa stare bene ma che mostra in maniera evidente la sua inconsistenza. No, non è possibile governare gli eventi, dare una regia alla nostra vita, vivere appaganti momenti risolutivi in cui si agisce in sincrono con la nostra segreta musica interiore. Se credete a questa favoletta, sembra dirci l’autore, allora potete credere a qualsiasi cosa, anche alla mia storia eccentrica. Se la trovate strana, se la trovate eccessiva e falsa, allora forse la storia sta funzionando come deve.

La narrazione di genere è prima di tutto una questione di promesse e aspettative. Il racconto è regolamentato, presuppone un codice, la presenza di elementi comuni che stabiliscano l’appartenenza a un determinato ordine e che ne contrassegnino il percorso. Il genere di riferimento indirizza la gestione del design della storia, stabilisce, anche con ampie possibilità di variare, la sua progressione attraverso tappe prestabilite e determina la carica, positiva o negativa, del valore in gioco con il quale viene chiusa la narrazione. Ma oltre la progettazione strutturale di una storia, il genere presuppone, da parte del lettore, delle aspettative. La posizione di “È il tuo turno” in questo discorso sulla narrazione di genere è riassumibile in una formula di promesse tradite e aspettative ingannate.

“La musica di Wagner sfuma. Siamo all’ultima scena del Götterdämmerung, e il commissario ferma l’auto di servizio. È all’estremo opposto della linea tracciata a partire dall’omicidio del sindacalista, ma quella storia continua a preoccuparlo. Sa che non è finita. Al contrario, è appena all’inizio.”

In “È il tuo turno” Laiseca apre con la scena dell’omicidio di un sindacalista e apparentemente promette al lettore una trama investigativa. La promessa verrà subito tradita: della storia che continua a preoccupare Craguin, la storia che non è finita, che è solo all’inizio, non sapremo più nulla. Sistematicamente le varie tappe della tipica narrazione crime verranno disattese o forzate.

La caccia al criminale verrà abbandonata dal protagonista per inseguire elaborate immagini mentali. La ricostruzione del crimine non avrà mai inizio. Graguin viene presentato, al principio, come un ricercatore classico che ha il mandato narrativo di investigare sulla faccenda, ma nel giro di poche scene avremo la certezza della sua estraneità al ruolo che gli è stato assegnato. Il suo operato non rappresenta nessuno dei passaggi razionali e pragmatici di un’indagine, il suo modo di accertare quanto è accaduto è passionale, illogico, disturbato di continuo da deliranti intermezzi, sogni ad occhi aperti, allucinazioni visive o uditive. La stessa scena di apertura del romanzo, quella dell’omicidio del sindacalista, propone un’immersione nel punto di vista della vittima in cui si inseriscono diversi a parte, brevissime incursioni nei pensieri dei personaggi, che hanno come effetto il depotenziamento drammatico, e la rinuncia alla suspence. Dopo la lunga sequenza che mostra la vittima al lavoro fino all’omicidio vero e proprio non vengono concesse che poche righe, il tono della narrazione è un anti-climax in cui la tensione data dall’imminente evento criminoso è stemperata nel prosaico.

“In fondo alla sala, un lieve movimento ondulatorio, come quando si lancia un sasso in uno stagno. Il disturbo si propaga: piccoli cerchi che si allargano sempre più. Un uomo è appena entrato e sta aprendosi un varco tra la folla ferma a fissare il ciccione, che parla al microfono e sogna (sogni d’oro e innocenti: anche imperiali, perché no?). Il tipo sgomita, avvicinandosi al microfono. Gli altri lo lasciano passare, perché non è stando più vicino al ciccione che otterrà prima il lavoro; il lavoro lo avrà solo quando vorranno quelli più in alto, quelli che comandano davvero. A due metri e mezzo dal ciccione, il nuovo arrivato si pianta e lo guarda per un attimo. Poi tira fuori un revolver, gli spara quattro colpi e, una volta sicuro d’averlo steso, si infila la canna in bocca e si fa saltare le cervella, tra lo stupore generale. Tutto in non più di quattro secondi.”

La presentazione del commissario, il protagonista che riveste, o dovrebbe farlo, il ruolo del ricercatore è in questo senso esplicativa della sua caratterizzazione singolare. Incalzato come una celebrità dai giornalisti, che si indignano per il suo comportamento ai limiti della follia, Craguin è un personaggio incomprensibile, fedele solo a se stesso e alla sue leggi, uomo che esercita un potere che gli è stato concesso senza dare alla comunità alcuna garanzia di equità, e che ha in sé qualcosa di spaventoso. Non il classico detective paladino della giustizia: al contrario, un intoccabile, una minaccia, qualcuno che, se contraddetto, è in grado di farti sparire.

“I giornalisti, stupiti e indignati al tempo stesso, affilano già le zanne, pronti a farlo a pezzi l’indomani, e con almeno cinquanta buone ragioni (…)

Dopo l’accaduto, i politici reclamano la sua testa. Ma quando tre giornalisti – i più esagitati – periscono in circostanze misteriose, e due politici saltano in aria mentre mettono in moto le loro Porsche, l’ondata di sdegno improvvisamente si placa. E lo slogan del giorno diventa: “Lasciare le cose come stanno”.

Dal protagonista in poi, che, come abbiamo detto, lascia spazio al suo alter ego antagonista Nonna, disertando per lunga parte la storia, e quindi l’indagine, ogni cosa in questo romanzo fugge dal genere per dire altro. Gli interrogatori della polizia, i resoconti dei fatti, le scene d’azione con i loro eccessivi e gratuiti spargimenti di sangue, sembrano essere solo la cornice e non l’asse portante di qualcosa che è il vero oggetto del racconto, qualcosa che Laiseca traveste da elemento intrusivo, che appare a ingombrare e sovraccaricare l’indagine e che è invece la vera materia di cui è fatto il romanzo, il suo centro tematico. Una parte che è un insieme di schegge, una parte che è il tutto ma frantumato, che è stata relegata in un angolo dell’inquadratura, qualcosa che, in una narrazione più composta, sarebbe solo un’eccedenza da tagliare, da stipare nel fuori campo, appena un disturbante elemento di discontinuità nel passaggio da un’inquadratura narrativa all’altra, e qui invece è il vero senso di tutta l’operazione narrativa: l’intermezzo, l’aggiunta delirante, il frammento irrelato in cui esplode l’orrore.

L’orrore al comando.

Craguin sorrise enigmatico, senza rispondere. Il prigioniero non era un delinquente pericoloso. Anzi: non aveva mai violato la legge, non quella degli uomini almeno. L’aveva fatto sequestrare e condurre in una delle sue prigioni segrete, nei sobborghi della città. Bendato e legato come un salame. La prima cosa che vide quando gli tolsero la benda fu un uomo giovane, con indosso una toga di porpora, da giudice. Aveva labbra sottili, implacabili e pallidissime, come l’inquisitore del racconto di Poe, Il pozzo e il pendolo.

Altre volte, l’interrogatorio si svolgeva così:
«Per quanti anni è stato sindacalista?».
«Quindici».
«Carcere a vita e lavori forzati». (E giù l’enorme, esagerato martello, ricavato dalle ossa di un cranio umano). «Il condannato stiverà fiammiferi di legno come fossero sacchi, per otto ore al giorno». (Sulle prime, il sindacalista pensò si trattasse di uno scherzo. E rise, all’inizio, quando gli dissero di prendere un fiammifero dalla scatola e l’obbligarono a recitare, lentamente, la pantomima di caricarselo in spalla come fosse pesantissimo, trasportarlo quattro metri più in là e depositarlo in un angolo della cella, per poi tornare ad aprire la scatola, estrarre un altro fiammifero, depositarlo accanto al precedente ecc. Ma col passare delle ore e dei giorni, costretto dalle guardie a ripetere continuamente le medesime azioni, la voglia di ridere gli passò) 

Nella prosa di Laiseca l’orrore è un intermezzo comico in cui il riso ha una carica eversiva. Tra le pieghe dell’azione e l’evasiva risposta del ricercatore si aprono voragini narrative, sproloqui deliranti, racconti densi di orrore e risa, uno strapiombo in cui precipita il senso narrativo. Lì dove la continuità e la progressione drammatica vengono sacrificate va in scena un intervallo orrorifico ripetuto all’infinito, perché tutto è vuoto di senso e tutto ride sguaiatamente e tutto urla senza scopo in questo romanzo.

«Le parla mai dei suoi deliri?».
«Ogni tanto».
«E cosa le dice? Racconti, racconti…».

In “È il tuo turno” è impossibile individuare una forma definita del genere, poiché la storia oscilla continuamente tra le varie declinazioni, tutte rivisitate con intento parodico, ma è solo dopo aver attraversato alcune delle stazioni base di una narrazione crime che l’indagine del commissario Craguin deraglia definitivamente e viene inghiottita in una larga parentesi che vira all’horror. Fino a quel momento le tappe dell’indagine di Craguin, per quanto eccentrica, hanno seguito un percorso standard: l’omicidio del sindacalista, la comparsa del detective sulla scena del crimine, l’interrogatorio dei testimoni, un bizzarro rapporto di polizia dove viene stilata la biografia dell’assassino, un resoconto dei fatti. Dopo queste tappe obbligate il commissario si trova a precorrere un delirio narrativo che ha come unico appiglio alla continuità una particolare forma di evocazione dell’orrore, che connette la morte, la paura e il libero e creativo esercizio della tortura, compresa l’elencazione degli strumenti e delle strategie affinché questa venga agita, con una bizzarra comicità.

Il romanzo diventa, quindi, una serie antologica di racconti dell’orrore. Si comincia con la gita turistica di Craguin all’obitorio…

«Più o meno tre mesi fa, gli ordinarono di ispezionare tutti gli obitori del Paese – una specie di gita turistica. Ci andava di notte, nelle ore più assurde, come se volesse sorprendere i cadaveri in flagrante, nell’atto di compiere chissà quali peccati segreti, di quelli che si compiono solo di notte».

 …dove Craguin ascolta i farneticanti discorsi del custode, che si rivela un personaggio al tempo stesso sinistro e ridicolo, una sorta di scienziato pazzo che ha in mente di riportare in vita i morti.

…Sto studiando un trattato di magia, per vedere se riesco a farli muovere».

(Adesso il commissario ascolta con attenzione):

«E perché vuole farlo?».
«Vorrei semplicemente… rimetterli in piedi. Per il momento è solo un’idea, senza uno scopo preciso. Scienza per la scienza. Ma venga, venga, le faccio strada». (Raggiungono una grande cella frigorifera. Il custode gli mostra il cadavere di una donna).
«Vede? Vede che ho ragione? Questa povera figliola è in condizioni ancora perfette. Ha notato che bei seni?».
«Ho notato».
«Può anche toccarli, se vuole; ma con delicatezza, mi raccomando».
«No, grazie».
«Bene. A ogni modo, ecco cosa intendevo. Per costruire un robot ci vorrebbe molto più tempo; e poi, rimettendo in piedi un cadavere come questo, impediamo alla morte di intaccare la bellezza. 

La scena in cui il custode mostra a Craguin il corpo di una morta invitandolo a toccarle i seni, scena allo stesso tempo comica e raccapricciante, mostra un elemento costante in questi racconti dell’orrore innestati da Laiseca nel romanzo in modo apparentemente casuale. Il motivo ricorrente è l’assoluto, libero e grottescamente creativo, esercizio del potere, la relazione tra un soggetto inerme, qui un corpo senza vita, e un altro che può esercitare il suo dominio senza nessun limite o giustificazione razionale alle sue azioni. Una volta relegato fuori dalla definizione di umano, di soggetto dotato di identità distinta e di libero arbitrio, l’inerme diventa un fantoccio, un oggetto da sottoporre a pratiche macabre, qualcosa che è possibile trasformare, rianimare, torturare senza incorrere in nessuna sanzione morale. Ecco che nell’intermezzo, nell’innesto di comici racconti dell’orrore, Laiseca sembra quasi nascondere il senso della sua narrazione, solo apparentemente delirante: una critica al potere fatta con le sue stesse armi, la violenza e l’irrazionalità.

Per cominciare, si rimpiazzerebbe l’apparato circolatorio con un sistema di tubi e condotti che pompano liquidi caldi, in maniera da restituire al corpo la temperatura della vita. Poi, lo si farebbe muovere con qualche strumento meccanico, collegato a una centralina da cui partirebbero tutte le istruzioni su come comportarsi e cosa dire durante il giorno. Le istruzioni sarebbero incise su nastri magnetici, da inserire all’interno del corpo. Sette nastri a lunga durata: uno per ogni giorno della settimana.

Questa parentesi antologica all’insegna dell’orrore comprende divertenti elenchi di armi e strambe strumentazioni criminali, che sembrano irridere un tipo di rappresentazione del mondo del crimine, e della detection classica, basata sulla presunzione di poter ordinare, comprendere e prevenire, l’evento criminoso, attraverso la logica e attenta analisi dello strumento utilizzato per compierlo.

Coltelli, revolver, frecce avvelenate. Balestre speciali per scagliare lance anziché frecce; e non in linea retta, ma catapultandole nell’aria, così da uccidere comunque: per trafittura o per impatto. Una Bibbia modificata, con una molla tra le pagine delle Beatitudini, pronta a sparare un aculeo nell’occhio del lettore. Un collare per cani, esplosivo. Una minuscola fotocellula all’infrarosso, inserita in un portasigarette e collegata a una bomba, che scoppia all’apertura dell’astuccio. (…)

Per Laiseca il crimine, così come l’armamentario dell’assassino, mantengono un ostinato carattere irrazionale, violento e assurdo che, messo in scena nella sua insensata gratuità, non può che apparire ridicolo.

Un long-playing di musica d’avanguardia: Bob Dylan ecc., uno dei migliori, insomma, da ascoltare e riascoltare, ma con una traccia incisa usando ultra-suoni o roba del genere – e quindi non udibile normalmente – che ogni tot secondi ripete la frase: «Sei frocio». Chi ascoltava il long-playing molte volte finiva per convincersene e in preda a una crisi depressiva si ficcava una lametta nel culo, morendo dissanguato.

La sequenza di indizi decisivi all’arresto di famosi criminali non è da meno.

Il museo custodisce anche gli indizi decisivi grazie ai quali si arrivò a catturare famosissimi criminali. Un capello lungo un millimetro (sapendo di perderne parecchi, l’assassino si era tagliato i capelli alla prussiana, per non lasciare tracce; sebbene cortissimi, i capelli però continuavano a cadergli). Un’impronta digitale lasciata nel fango (accortosi di aver perso un bottone, l’assassino si era affrettato a raccoglierlo, per evitare guai con la polizia: sapeva bene, infatti, che un gran numero di criminali finisce in manette proprio a causa di bottoni o frammenti di bottoni lasciati sul luogo del delitto).

Nel momento in cui Craguin attraversa una tappa obbligata come quella della visita del detective  al custode dell’obitorio per rilevare sul corpo della vittima elementi utili a spingere avanti l’indagine sul crimine, Laiseca sceglie di abbandonare definitivamente la linea di racconto relativa all’indagine per entrare nel vivo della narrazione horror, con una serie di divertenti e sanguinolenti racconti completamente sganciati dalla trama del romanzo, in cui la storia del potere incarnato nelle figure di feroci regnanti è legata al racconto delle loro immorali efferatezze e barbarie, ancora una volta comiche nella loro natura farneticante.

“Rassegna di barbarie, efferatezze, atrocità e deliri

(…) Paolo XII il Sinistro (celebre per l’abitudine di terrorizzare i suoi sudditi stendendo fuori della finestra papale, quattro volte l’anno, all’inizio di ogni stagione, un tappeto di carne intessuto con le proprie mani);

«Gofio Uno, detto l’Anticristo; questo antipapa, salito al soglio di Pietro con il nome di Pietro Primo (o Gofio Uno), sostenne la superiorità dell’incesto su qualsiasi altra unione matrimoniale. Scomunicò Filippo VIII il Transigente, per aver preso in moglie una cugina di quarto grado, della quale era molto innamorato. Quando il re, pressato dall’interdetto, ripudiò e fece chiudere in convento la cugina per sposare la propria sorella, il papa lo perdonò.

In questa sezione Laiseca realizza un crescendo di comicità e orrore inestricabili.

Storie gotiche dell’emirato di Languria. Supplizi ordinati dall’emiro Mozabach

(…)

Quando poi, finalmente dissetatosi, lo scarcerato smetteva di bere e implorava che lo si lasciasse tornare a casa, gli si stimolava di nuovo la sete cacciandogli una fiaccola accesa su per il culo. E se questo non bastava, gli si chiudevano entrambi i testicoli (delicatamente, per non fargli male) in un uovo di bronzo, apribile nel mezzo. Dopo di che, badando che in nessun momento l’incastro potesse provocargli la minima sofferenza, si cominciava a riscaldare l’uovo. All’inizio il malcapitato avvertiva un lieve calore, niente affatto doloroso, anzi piacevole e distensivo. Presto, però, l’aumento della temperatura lo spingeva a tentare l’impresa impossibile, kafkiana, di ingollare tutta l’acqua, fino a scoppiarne in pochi minuti.

Si procedeva, allora, a cospargere di miele il petto di ogni sventurata, anche di quelle non in grado di allattare, e particolarmente i capezzoli, ai quali si attaccavano maialini affamati, che in principio si limitavano a succhiare, pur con una certa violenza, ma che poi, in preda a una feroce eccitazione, prendevano a mordere, finendo per divorare le mammelle. Allo scopo si sceglievano infatti maialini svezzati, che già potevano ingerire indifferentemente cibi liquidi e cibi solidi.

Tortura imposta alle donne nell’emirato

«Innanzitutto, venivano denudate. Poi, violentate otto volte. Più tardi, dopo un riposo di quindici giorni, dovevano essere violoncellate à la Camerata Bariloche, ma soltanto due volte al giorno. Col tempo, il numero delle violenze quotidiane aumentava…”

Il potere è rappresentato come spaventoso e ridicolo perché impersonale, contraddittorio, imprevedibile. Se la violenza e l’orrore in cui veniamo precipitati sono insensati, sganciati da qualsiasi logica o valore etico, il loro racconto non può che essere un amalgama di paura e isterismo capace di far sperimentare al lettore lo spaesamento dei folli, la loro risata sguaiata e priva di senso.

«Perché condannare alla “sedia elettrica”? Perché non alla “sedia elettronica”?». (Ed effettivamente: aveva installato nei suoi sotterranei una sedia elettronica per i condannati alla penultima pena. Li faceva sedere e, abbassando la levetta, li disintegrava, con una scarica molto più potente dell’elettrocuzione. Pochissimo fumo. Quando l’apparecchio venne perfezionato, i condannati semplicemente sparivano, come in una dissolvenza cinematografica.

L’orrore di cui ci parla Laiseca è una macabra e sadica pratica di cancellazione, la perdita di sé, del senso della propria identità, dei confini entro cui è possibile autodeterminarsi e andare oltre la disumana dimensione collettiva.

«Mi chiedo se hai mai pensato a cosa accadrà a tutti noi, se non riusciremo a fermare in tempo gli anti-Mozart. La forza etica e mentale di pochi illuminati ha impedito finora che la volta celeste crollasse sulla Terra, annientandoci. Totalmente incompresi e con minimi mezzi, pochi uomini continuano a battersi perché il cielo non si trasformi da un giorno all’altro nella volta di un’immensa cappella nobiliare, di quelle che un tempo i signori facevano costruire per il proprio feretro e per quelli dei loro cari. Riesci a immaginare l’orrore di un corpo umano circondato da iceberg giganteschi che incombono minacciosi, pronti a sottrargli calore, come in un sistema termico di vasi comunicanti?».

Di tutti i mostri che ci vengono presentati in questo romanzo, il più spaventoso, il vero nemico da contrastare, è rappresentato dalla figura dell’anti- Mozart, l’espressione umana dell’ Antiessere.

Ora che siamo arrivati alla fine di questa ricognizione della scena del delitto, di questa cruenta messa in scena, appare chiaro il movente dell’assassinio della narrazione classica, compiuto da Laiseca nel suo romanzo d’esordio. Trovare la propria forma, autodeterminarsi, ha in sé qualcosa di tremendo, comporta un costo fatto di dolore e sgomento. Tagliare, fare a pezzi quello che ci ingloba, che ci governa e ci indirizza può essere spaventoso, anche quando questa guida ha su di noi potere di vita, di tortura e di morte. La scelta di Laiseca è quella di un’antitrama eccentrica, ma per scegliere l’antitrama devi esserti prima innamorato del suo opposto. Per opporti a qualcosa, per odiarla come si deve, per volerla tradire o deridere, devi prima averla amata, devi prima averle creduto, o almeno devi averla conosciuta a dovere, averla anche subita. Altrimenti il rischio di cadere nell’irrilevante è alto. Laiseca ha afferrato uno stereotipo del racconto di genere, il tormentato e violento detective americano, e ne ha fatto un folle sadico, anarchico, divertente, innamorato, oltre la morale comune, del suo doppio criminale. Ha isolato uno dei capisaldi della narrazione classica, la guerra tra la legge e il crimine, tra l’eroe e il suo antagonista, per trasformarlo in un decentrata amicizia virile oltre i concetti del bene e del male. Con “È il tuo turno” Laiseca ha manipolato un archetipo di genere per poi riconsegnarcelo sfregiato, ma perfettamente funzionante. E così è riuscito a dirci, in modo immediato, che possiamo amare anche quello che in parte disprezziamo, quello che sappiamo di disprezzare perché non ci apparterrà mai, che in questo disprezzo c’è una parte di noi che ci restituisce la misura della nostra identità, una malinconia che non si risolve, che non ci lascia in pace, qualcosa che è il carburante del nostro odio e del nostro amore, qualcosa che non possiamo comprendere interamente e che per questo non smetterà mai di soggiogarci.

La casa editrice indipendente Edizioni Arcoiris ha portato per la prima volta in Italia gli scritti di Alberto Laiseca.  “Le avventure di un romanziere atonale” (2013),  la raccolta di racconti “Uccidendo nani a bastonate” (2016) e il romanzo “È il tuo turno” (2017)

Potete trovarli qui: https://www.edizioniarcoiris.it/

Pubblicato da Emanuela Cocco

Emanuela Cocco, editor e autrice

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