È così: sono tutti rinchiusi qua dentro, si dibattono contro le pareti per trovare quel foro da cui guardare il caso in faccia.
(Alfredo Zucchi, “La bomba voyeur”, Rogas Edizioni, 2018)
(Pubblicato ulla rivista “LIrrequieto”, febbraio 2019)
Un ragazzo è chiuso in una casa, è stato rapito, gode del suo sequestro. La casa è un romanzo ed è una “casa occupata”. Come nel racconto di Julio Cortázar, “La bomba voyeur” di Alfredo Zucchi (Rogas Edizioni, 2018) narra di una reclusione desiderata, del piacere nella costrizione, di un assedio voluto che viene turbato dalla presenza di un fantasma. Entrando in questa casa, attraversandone gli ambienti, toccando gli oggetti di arredo, avremo la sensazione di tornare a qualcosa che conosciamo, che ci è appartenuto in passato, qualcosa che abbiamo appreso nel modo immediato con cui si apprendono i fatti delle storie che ci riguardano, storie alle quali abbiamo assistito e che potremmo nominare costringendole nel susseguirsi di nomi, di luoghi e circostanze ordinati nel tempo. Siamo a casa. Abbiamo già abitato queste stanze, conosciamo la mappa di questo luogo, sappiamo come muoverci al suo interno, eppure, fermando lo sguardo, ci renderemo conto di piccoli significativi mutamenti avvenuti nel paesaggio, spaccature nella superficie della storia, falle nella memoria, crepe che attraversano l’immagine, interferenze, fugaci apparizioni di oggetti di scena che sono dislocati, cambiati di segno; alcuni mancano all’appello, altri sono stati portati sul luogo indipendentemente da noi e dai nostri ricordi, dalla nostra consapevolezza. Ci aggireremo così tra i fatti, frastornati. Avremo la tentazione di chiuderci dentro al sicuro con la storia, ma saremo costretti a fuggire. Ecco che i fatti, i fatti così come ci appartengono e noi apparteniamo loro, i fatti che sono stati spostati, ci sembreranno allo stesso tempo simili a come li ricordavamo eppure profondamente diversi. Li guarderemo. Questo spostamento, questo movimento che li ha relegati fuori dal nostro campo visivo o che al contrario ce li ha posti davanti a distanza ravvicinata, fino all’intollerabile, ci disorienterà. Saremo così portati a riconoscere che una mostruosa familiarità si è insinuata nei fatti e li ha deformati, sconvolgendoli. “La bomba voyeur” è una casa occupata, estranea e domestica. Mi sono rinchiusa al suo interno: ora guardiamo insieme.
Anticamera.
«Che sono i fatti?» si chiede Nessuno ore dopo il suo rapimento – è l’avventura statica: i contorni dell’agire sfumano. Il ragazzo, recluso, gode.
«Abbiamo compiuto il fatto». L’Onorevole dirige il consesso dei soci come un rito. È la vigilia di un cambiamento epocale sulla scena politica del paese. L’azione è tutto: la chiave con cui scompigliare equilibri immutabili, la sonda con cui sfidare il senso ad apparire.
Dice l’Avvocato: «L’ossessione è la forma. Ciò che vogliamo non ha nemmeno un nome, è più scarno di un’idea. È un buco: noi vogliamo poterci scavare dentro fino a trovare il fondo. Vogliamo vedere la fine, il limite, e tornare a scavare di nuovo. Vogliamo scoppiare provando. Cos’è altrimenti un gesto?».
«La strada davanti è spianata», fa Bruto, «eppure io non la vedo: mi sfugge, si sottrae».
In anticamera, l’autore mi accoglie non con l’innesco di una storia ma con un breve, complesso, prologo. La voce narrante ultima del romanzo (che è smembrata in più voci) da subito rinuncia a tenere tutto insieme, “si adatta alla natura del gioco”, racconta la molteplicità e la scissione. Il romanzo si apre con una domanda, prosegue con una fulminea rivelazione, segue poi una dichiarazione di intenti e termina con un’ammissione. Il fanciullo rapito, Nessuno, si domanda cosa sono i fatti. Ma chi è Nessuno? Lo scopriremo. Per ora sappiamo solo che la sua cattura ha arrestato l’azione conducendola a un’avventura statica in cui il flusso del racconto si impantana. Davanti all’impossibilità della visione, l’evento, con il suo carico conflittuale, le sue azioni e i loro moventi bloccati, resta illeggibile. Ma in questa reclusione il ragazzo gode. Perché? La ricerca di una risposta sarà oggetto privilegiato della storia, ma ora siamo all’inizio, ogni valutazione è sospesa. La storia, ora, si apre sulla condizione di paralisi di uno dei protagonisti, una tregua all’azione, data da una reclusione che è fonte di piacere. I contorni dell’agire sfumano, ci mette in guardia l’autore, il percorso che ci attende sarà quanto di meno somigliante al classico arco sia possibile. Qui non si tratta di salire e poi scivolare mutati fuori dalla storia, si tratta di costruire, noi lettori, ognuno la propria struttura. Andando avanti, appena poche righe, in realtà siamo stati sbalzati indietro di oltre una decida d’anni, altrove, non sappiamo ancora dove, l’azione è al suo culmine direzionale, l’azione è tutto: inizio, spinta, approdo. L’azione condurrà, così ci viene annunciato, a una precipitazione della storia che, incarnandosi nel fatto, frantumerà la forma che l’ha generata. Qui e Altrove, ci dice Alfredo Zucchi prima ancora di farci entrare nella sua casa, il mondo è mosso dal desiderio della fine; che ci si attardi in una tregua desiderata e prolungata tanto da divenire abdicazione o che si decida di correre a velocità folle verso il precipizio del narrato, i personaggi di questo romanzo si dibatteranno tra il desiderio e la paura del suo compiersi.
La storia non si chiude, la storia non finisce, la storia, qui, è un gioco di prestigio. Nel gorgo spaziale e temporale del romanzo si alternano diverse linee drammatiche e altrettante voci narranti. La prima di queste è dedicata alla Societas: società segreta, congrega di occulti manipolatori della politica che conducono una cruenta e greve battaglia per il potere. Qui, raccontati da un narratore onnisciente, rivivono gli anni Novanta della storia italiana, gli anni della crisi e di una apparente definitiva resa dei conti con la giustizia, anni di cui Zucchi ci offre una regia grottesca e spregiudicata.
“Non è semplice dire, in una frase, la storia della Societas: il Grosso sceglie un’iperbole e non ha tutti i torti. È una storia e come tale presenta una stratificazione infinita, a meno che non si venga a dire: questa è l’origine, questo lo scopo, è così, andiamo avanti. Andiamo avanti: questo sarebbe l’attributo tranchant del potere – e allora tanto vale risolverla con un’iperbole.”
«Nel chiasso delle indagini esiste il rischio fondato che dalla crosta si apra un varco che porta diritto a noi, giù, in profondità…»
«Esiste il rischio che le attività della Societas diventino oggetto di indagini. Tocca quindi a noi, ora, evitare che questo accada, trasformare il rischio in opportunità».
Qualcosa, il Giusto e le sue rivelazioni, minaccia la Societas dall’interno. Il Giusto è la crepa da cui si affaccia la rovina, ma per il nocciolo duro della Societas, il petit comitéche trama nel buio per salvaguardare il potere, il problema è anche la sua soluzione. Bruto, il giovane uomo allevato politicamente dal Giusto, tradirà e ucciderà il padre per diventere l’uomo nuovo della Societas e quando anche lui uscirà di scena sarà proprio il figlio del Giusto, un ragazzo, il ragazzo in fuga dal potere, dal potere tratto in arresto e poi dal potere inglobato, a prendere il suo posto. La seconda linea del racconto, attraverso una voce monologica, segna uno scarto in avanti di oltre dieci anni nella storia, e racconta l’avventura statica di Nessuno, il giovane figlio del Giusto, di cui conosceremo l’identità solo verso la fine del romanzo. Nessuno architetta una sofisticata fuga dal mondo, e da se stesso, per finire poi liberato dall’avvento della sua stessa prigionia. Ma i due binari che percorrono le vicende del romanzo verranno a un certo punto investiti da un terzo punto di vista, una terza voce narrante che si manifesta nella forma di uno spazio critico in cui la storia viene letteralmente sottratta alle voci narranti, e alla loro ordinata successione, per realizzare tra loro un incontro forzato, una collisione che darà vita a un compendio critico, un laboratorio in cui verranno ridefinite le coordinate del romanzo in forma saggistica, una terza via di accesso alla casa, un contrappunto di voci, un campo e controcampo analitico, che trasporterà il lettore fuori dal romanzo e contemporaneamente lo obbligherà ad affondarci dentro con piglio da anatomo patologo. Alle diverse sollecitazioni stilistiche, drammatiche e tematiche del romanzo sono adibiti ambienti, sequenze, parti speculative, esposizioni saggistiche, citazioni, riscritture e rimandi metaletterari, dislocati nel romanzo come stanze chiuse, solo a fasi alterne comunicanti tra loro. Entriamoci dentro.
La sala delle feste.
Roma, 21 giugno 1992 d.c. Attico, interno ristorante stellato zona Pantheon. Presenti: Avvocato, Onorevole e altri figuranti minori.
Sembra un trompe-l’oeil l’orizzonte oltre le portefinestre del Caput mundi: il sole si accascia sui colli, le nuvole campeggiano lascive tra i campanili. È un quadro mitico, cartolina dell’eterno – tuttavia talune forze spingono per squarciarlo: il loro operato non è ancora apprezzabile a occhio nudo.
La sala delle feste è dove si riuniscono gli eminenti membri della Societas. In un lussuoso ristorante al Pantheon, nella sede del Centro Studi Ermeneutici nei pressi di Porta Pia, in un attico all’Olgiata, nei giardini di un palazzo settecentesco. Qui, all’interno dell’ala sfarzosa del palazzo romanzesco di Alfredo Zucchi, si tengono riunioni d’affari, banchetti dionisiaci, sedute erotico speculative, colloqui maieutici. In questa stanza viene compiuto “lo sforzo bestiale di partecipare al potere”.
…l’Avvocato annuisce mentre tira fuori una penna dall’occhiello. È un animale politico eccentrico: acume da filologo classico prestato, da dieci anni, alla camera dei deputati. Traccia un circolo intorno al titolo dell’editoriale, “Le macerie del palazzo”, e annota, di lato, una glossa: “potere-crisi-rovina-monstrum”.
Si apre, nel centro, un sentiero per la vita larga dell’Onorevole – traghettatore della nazione durante la guerra fredda, primo ministro non si hanno mani per contare quante volte, nonché ministro della giustizia, dell’interno, degli esteri; probabilmente l’uomo politico più influente del dopoguerra in Italia, di sicuro il più corpulento.
Salomone il Giusto: partner in crime del Grosso nel condurre la nazione per le paludi del dopoguerra, primo ministro un po’ meno volte del Grosso ma abbastanza da sfondare le dita di una mano per contare, presidente della repubblica uscente; ad oggi, tuttavia, in ritiro spirituale e senatore a vita.
Gli attori che partecipano al rito vogliono scongiurare la rovina facendo nascere tra le macerie del palazzo un nuovo soggetto politico capace di dominare e di possedere, ancora una volta, il Paese. Sono maschere grottesche senza nome, personaggi che non evolvono nel senso classico, attraversati dagli eventi e da loro trasformati, non sono identità messe sotto pressione dalla storia, incitate a scegliere dai suoi dilemmi, ma burattini che non progrediscono attraverso i fatti perché i fatti non sono altro che il frutto di una macchinazione orchestrata dall’autore. Le maschere recitano uno spettacolo di cui sono allo stesso tempo spettatori. Il palcoscenico è un buco attraverso il quale guardare, insieme, per scorgervi dentro ciò che sembra mimare i nostri stessi gesti, le nostre brame, ma anche tutto ciò che definisce la nostra alterità. Prossimità e distanza, sono le due prospettive che entrano in gioco nel romanzo di Alfredo Zucchi nel momento in cui ci presenta i membri della Societas. Ognuno di loro indossa una maschera che nei tratti principali resterà immutata fino alla fine del romanzo, la loro entrata in scena è accompagnata da rapidi cenni biografici, come note ai margini di un’azione teatrale che a volte sfiora i ritmi propri di certi siparietti comici della pièce bien faite. La scrittura di Zucchi irride così la complessità di certi ritratti psicologici del personaggio, certi meccanismi a lento rilascio di agnizioni esistenziali ed epifanie del sentimento sulle quali vengono costruiti i caratteri classici.
Il ruolo di oratore e ermeneuta nella banda del Grosso fa dell’Avvocato il PR del petit comité, per quanto definire pubbliche le relazioni che questi è tenuto a intrattenere, tra il petit comité e la Societas e l’esterno, non renda giustizia. È piuttosto il capomastro dei mormorii, il direttore dello spazio aereo verba volant: è una posizione delicata, compromettente, ambigua. Nel tempo – da almeno otto anni l’Avvocato vi si dedica con tutto se stesso – questa funzione ha finito per modellare ogni suo gesto, il tono stesso della sua voce – ora appena sussurrata e intima e di colpo, quando l’occasione lo richiede, squillante, teatrale e inequivocabile – tutto il suo abito in società: è un uomo duplice fin dove la salute mentale glielo concede.
Nella sala delle feste i personaggi, rivestiti di una tragicomica patina di antico posticcio e cinematografico animano canovacci da commedie a soggetto, azioni drammatiche caricaturali in cui la storia italiana con la sua trama di tangenti e macchinazioni, quella dei pool e delle grandiose performance mediatiche della lotta alla criminalità, è oggetto di un montaggio episodico in cui le riunioni, gli incontri, gli abboccamenti in cui si fa o si disfa la storia politica italiana, o per meglio dire la sua finzione, vengono ridotti a frame irrelati che si ripetono senza soluzione di continuità, una serie ciclica di riunioni, di incontri, in cui le cospirazioni sono intervallate dalle portate di cene e pranzi succulenti, in cui si fabbricano i fatti mentre ci si ingozza oppure ci si masturba o ci si incula a vicenda.
Qui accade uno scatto, un’accelerazione che nei corpi dei convitati si rappresenta come un improvviso smottamento della morbida curva dello spazio-tempo – un declivio scosceso, una montagna russa: è la paura.
La politica è quella cosa che accade mentre le maschere si abbandonano ai loro istinti, il rito ha perso la sua sacralità o ne ha inventata un’altra in cui nulla è sacro e tutto è soggetto ad essere consumato, sporcato, usato da corpi dolorosamente legati alla contingenza, corpi che si eccitano, che penetrano, che eiaculano, che ingurgitano, che eruttano, che si ammalano e muoiono, che esercitano la sopraffazione o la subiscono, corpi come marionette eccentriche, funzioni narrative incapaci di evadere dal loro mandato autoriale.
Il ragazzo si volta. È sorpreso, se non proprio emozionato per il regalo inatteso. Dice: «Grazie, Avvoca’», la voce roca dall’imbarazzo. Con uno sforzo disumano – è il pegno, il contratto – prende la mano di lui come fosse quella di Miss Universo in bikini e la avvicina al suo pube. Le fughe simboliche che il terrone compie ogni volta per ottenere erezioni dalle mani pallide dell’Avvocato – i transfert, le sostituzioni e le sublimazioni – hanno fatto di lui un artista sofisticato, per quanto sommamente ignorante.
L’Onorevole siede a capotavola, nel fondo; l’Avvocato, Er Grigio ed Esculapia su un lato; la Vestale dall’altro, Herr Direktor e Bruto tra i due.
«Ci sono parole che sono risuonate ostinatamente nella mia testa in questi mesi di acquattamento – parole di sacrificio, attesa e rinascita. Un canto di guerra». L’aria nella sala si riempie di vapori – un odore organico, come sudore, come respiri sospesi – mentre parla il Grosso. «Un poema antico che parla di noi, necessariamente. Un Canto di Primavera. Ascoltiamolo ora, vi prego».
Come nel film “L’angelo sterminatore” di Buñuel, gli invitati alla festa (e tra questi ci siamo anche noi lettori) si trovano costretti a partecipare a un evento, l’esercizio del potere, che sembra ripetersi sempre uguale a se stesso, animato non da personaggi ma dai loro simulacri. Il Direttore, governatore uscente della Banca d’Italia, il Giudice, Esculapia, la massaggiatrice di regime, la Vestale, il corpo motore della storia, il magistrato edonista custode del rito del potere, che porta in scena il corpo su cui agiscono le dinamiche legate all’esercizio del potere, la ricerca del piacere per via della sopraffazione e Bruto, il giovane traditore, l’uomo nuovo, il corpo che verrà iniziato ai misteri della Societas: tutti sono impossibilitati a lasciare il palazzo, incapaci di abbandonare il banchetto al quale sono stati invitati.
«Ecco: è in questo calderone che noi dobbiamo prendere forma nuova. Ma prima di indagare cosa questa sia vi chiedo di gettare insieme, per un attimo, lo sguardo all’indietro». Al cenno dell’Onorevole si spalancano le porte dell’atrio: vengono dentro, dal retro, tre donne e un uomo di colore – le Grazie e il Nero, nelle parole del Grosso. Sui vassoi di metallo tengono spumanti e antipasti. I quattro raschiano lo spazio tra le sedie e gli scaffali di libri mai aperti, sfiorando coi corpi quelli dei Soci. I calici infine si levano – «Astra!», «Volnere!», «Primavera!» – mentre le Grazie e il Nero riempiono i piatti di insalate e fritture. Le dita della Vestale risalgono lentamente le ginocchia di Bruto, Herr Direktor al suo fianco osa e non osa guardare; dall’altro lato, il Nero si china sul piatto di Er Grigio coi frutti di mare appena bolliti e Esculapia, con un gesto improvviso come un pretesto, sfiora le dita lunghe della sua mano nera. L’Avvocato li osserva: assapora l’aria a festino imminente, a corpi impazienti sul punto di esplodere.
I gesti agiti dal potere assumono le sembianze di un’aggressione. La scrittura di Zucchi assembla sequenze dinamiche dalle ascensioni parossistiche, nelle quali primeggiano il gusto del grottesco e una esplicita presa di distanza da un tipo di narrazione realistica, a dialoghi imbrigliati in approfondimenti tematici che spesso sconfinano in dissertazioni filosofiche.
«L’ossessione è il nostro unico mezzo». Le parole dell’Onorevole si accompagnano allo scroscio intermittente dei vini dorati – al contatto col vetro fanno una schiuma leggera e saltellano, riempiono l’aria di vampe acide e fruttate. Anche i corpi vogliono scrosciare.
Esculapia gronda succhi dalle mani e le schiene delle Grazie sono tavole imbandite. Bruto scalpita in mezzo tra la Vestale e Herr Direktor. Cassate enormi invadono la sala: il Nero e le Grazie sono nudi al servizio dei soci, la ricotta viaggia tra i buchi. «Cosa resta di noi se ci liberiamo da ogni tara?». L’Avvocato assume ora in pieno il suo ruolo di tramite e interprete.«Ogni tara: tutti i parassiti, non solo gli uomini ma i motivi!». L’Onorevole grida con le ultime forze. Gli zuccheri fanno di lui una bestia terminale, ansimante. «I motivi!». Grida – si agita e vomita tra le dita premurose delle Grazie – e la sua voce si sovrappone a quella dell’Avvocato.
Tra i rutti rauchi dell’Onorevole, l’Avvocato lotta – con se stesso per prima cosa – per tenere il discorso vivo. Un coito grande quanto l’idea stessa del desiderio è stato promesso: il peso della voglia di tutti quei corpi stipati nella sala si posa sulle sue spalle. Elabora per condurre i soci allo scoppio…
Nulla è armonico, tutto è sovraesposto, sottoposto a un espressionismo del linguaggio che taglia le scene e orchestra sconfinamenti tematici, rendendo lo stile aggressivo e florido. In questi ricevimenti allestiti dal potere a proprio uso e consumo il dinamismo dei corpi e la volatilità delle intenzioni, e dei desideri, sono centrali. L’abbrutimento e la degradazione dei soggetti, i rimandi all’estetica sadiana nella composizione della messa in scena, costituiscono dei segnali di indirizzamento del lettore che conducono all’affermazione di due poli attorno ai quali si organizza il ciclico ripetersi del discorso sul potere: il principio del piacere, e del desiderio, viene contrapposto al principio di realtà. La degradazione, sociale e simbolica, dei personaggi, è il modo in cui l’autore riesce a violare lo spazio irrappresentabile della storia. Zucchi sceglie di farlo scansando una diretta scelta mimetica e abbracciando la via di una evocazione ambigua, in cui esibizionismo e segretezza conducono insieme la loro marcia verso il lettore, alimentandone la spinta voyeuristica. L’oggetto della visione, l’esercizio del potere, la lotta per la sua persistenza, suscita allo stesso tempo curiosità e ripugnanza.
Al buio, Er Grigio afferra una Grazia per i polsi e la stringe; il suo grido acuto si perde tra i canali elettrici, i sensi unici di ognuno dei soci. È una tempesta e ognuno filtra le scosse e i rumori rinchiuso nella sua corazza. La Grazia si accovaccia a terra per succhiare e non basta: Er Grigio è un giudice infame e la trascina su di sé per i capelli, cavallo per farsi galoppare. Ma la sella ha un difetto di fabbrica e la Grazia – è colpa sua? Di chi è la colpa? – dev’essere punita
Una tempesta mi prende all’improvviso, ed è come se la mia testa fosse già una cosa sola con l’oggetto che ora devo sbranare. Come se quell’oggetto non l’avessi mai visto eppure fosse da sempre l’unica cosa desiderabile. Una cosa lampante. Una grande pienezza senza pensiero, o senza ricordo.
Fuori di sé: è quel coito ossessivo, quell’ironia smisurata di fare dell’ossessione – del desiderio – l’unico motivo. La caduta, la vedo – proprio per quello! E la morte – che sarà mai! Un’interruzione, un passaggio, l’entretemps dello spettacolo. Ma lo spettacolo – il desiderio, l’idolo – è il punto. Così l’Avvocato diventa una sorta di Tiresia, profeta di sciagure: per voler essere quello che vede e lo dice, e non solo. Per voler essere quello che causa – il centro stesso, il fuoco del desiderio – e raccoglie: le scorie, la vergogna, la fine.
Lo spettacolo offerto nella Sala delle feste è uno spettacolo vergognoso e travolgente, dove l’affermazione sociale si mischia a una eccedenza di eros, in cui l’orgasmo si manifesta a partire da una violenta fantasticheria del desiderio e contiene in sé ossessione e paura, un complesso sintagma di proiezioni e azioni concrete indistricabili per il lettore quanto per la voce narrante.
La cella.
L’allegria da spumante aveva riportato l’Avvocato a una battuta di pesca alla lenza, al largo del Circeo, due anni prima: «c’era il Giusto e fu l’ultima volta in cui l’ho incrociato nel tempo libero», dice; «c’era anche il figlio, un biondino insignificante se non fosse per lo sguardo da prodigio nichilista – il figlio, senza volerlo, aveva pescato il pesce più grosso, una spigola o un’orata enorme, e il Giusto era tutto fiero ma si forzava di dissimulare»
La seconda stanza è la cella in cui è incarcerato Nessuno. La cella sconfina dallo spazio concreto della prigione, è una condizione che costringe il personaggio anche prima della sua carcerazione fisica.
È tutto diverso – tanto diverso che non credo più al mio corpo. Lo dimentico, di fatto, mentre penso. E mentre penso – sono un re, il Signore di un luogo senza uomo. Scopro ora un brivido di potenza mai assaggiato prima. Un brivido di potenza: rimastico la parola e questa, in cambio (come una cortesia cavalleresca) mi porta in due luoghi opposti eppure affini. Il primo luogo è il come – il metodo. Il secondo è il da dove – l’origine.
C’è un modo dell’essere rigorosi? Ho cercato in ogni modo l’assenza, il seppellimento, la mutilazione dell’uomo dentro di me – senza riuscire. Ora, per costrizione, questa è venuta a me.
E non mi sfugge la cosa, il trucco della cosa, che solo al riparo – costretto, ascetico – il pensiero diventa quella macchina da guerra che dovrebbe essere. Non mi sfugge lo scarto che esiste – provato e misurato nei secoli – tra l’azione figlia della costrizione muscolare e quella invece che proviene dall’esplosione muscolare (lo scarto tra Platone e il tiranno di Siracusa). Non mi sfugge eppure non è il dato principale che ora registro.
Nessuno è una preda, delle sue idee, di una promessa, di un disegno che è dentro di lui, di un piano che lo coinvolge estorcendogli, per vie tortuose, un consenso che lo condannerà a una perpetua recita, ma in questa costrizione il ragazzo trova la sua unica via di fuga, una forma di libertà in cui potrà permettersi di dire sempre sì. In questo personaggio Alfredo Zucchi mostra come la via della costruzione classica del personaggio, abusata e stantia, il ricorso al coerente ritratto psicologico costellato di prove e ricompense, il luogo in cui a un movente chiaro segue l’azione, il cui percorso è un alternarsi sfiancante di rilascio e tensione tesi a uno scopo chiaro, non può essere soddisfacente e come questa forma ormai abbia perso di credibilità. Nessuno è un personaggio in cui il conflitto tra bisogno e desiderio non può essere raggirato dalla nota strategia di scacco sul piano dell’obbiettivo esterno, quello rappresentato dal desiderio, per avere poi una vittoria su quella rappresentata dal bisogno esistenziale perché qui le due dimensioni coincidono e la via per arrivare a un accomodamento appare sbarrata. Nessuno desidera essere libero attraverso la costrizione perché la libertà fisica lo ha sempre portato a un girare a vuoto esistenziale, perché quella libertà si poggiava su una promessa che lui si è sempre ostinato a voler onorare mentre i suoi desideri e i suoi bisogni la rinnegavano. Il ragazzo è un prodigio nichilista, ma è anche la promessa di un uomo nuovo, utile al rinnovamento delle strategie di guerra della Societas, ma anche questo elemento di novità rappresenta un inganno. Nessuno è l’uomo nuovo, solo nell’ottica di una sostituzione, quella che lo porterà ad assumere il ruolo di delfino della Societas, all’inizio affidato a Bruto. La sua identità è una figura ingannevole. Imprigionato nella storia trova la sua via di fuga ben prima che la sua cella venga aperta e solo al momento della liberazione torna in cattività. Nessuno è, quindi, un ossimoro vivente, emancipato nella prigionia diviene schiavo nel momento in cui viene liberato. Il ragazzo è un personaggio bloccato. I passaggi che avrebbero potuto portare alla sua definizione, al suo potenziale sviluppo, appaiono interrotti. Scopriremo alla fine che la mutilazione a cui è stato sottoposto, la rinuncia all’autenticità, è avvenuta ben prima dell’evento che avrebbe dovuto generarla. Il sequestro a cui viene sottoposto apparirà in conclusione come la semplice variante di una fuga decisa a priori. Allora capiremo perché la menomazione data dal sequestro rappresenta per il ragazzo la salvezza. Il suo percorso nel romanzo è montato seguendo un ordine temporale non lineare. La sua comparsa nella storia apre sul sequestro, racconta poi la sua scarcerazione fino al coinvolgimento nella Societas per poi tornare indietro, al momento in cui Nessuno incontra a Campo de’ Fiori, il Mante e Agathe, i suoi amici più fidati, per dirgli addio.
Nessuno avrebbe giocato due ruoli: da un lato agire pienamente, in preda alla pura imminenza, al freestyle patetico dell’emozione come in una performance poetica; dall’altro godere guardandosi dall’esterno, inebriarsi del pianto in diretta, operando una complessa scissione di sé tanto spaziale quanto temporale, uno scarto o devianza, operazione dal tasso tecnico elevatissimo (il grado più alto sulla scala del virtuosismo: Paganini o Maradona a seconda dei registri di riferimento).
Agathe conosce il titolo di questi versi di Nessuno, ricorda su quale carta sono stati scritti la prima volta, in quale faldone della sua scrivania sono archiviati, e tutta questa conoscenza, questa logistica dell’esperienza, non le impedisce di piangere, da un lato, e di trovare lo spettacolo estremamente paraculo – questo perché disconosce in gran parte, o non vuole saperne di conoscere, le condizioni nelle quali, da una prospettiva strettamente fisiologica, avviene quello che negli ambienti umanistici si definisce creazione letteraria. Anche Agathe si scinde e si sdoppia, ma non è questo il punto. Il punto è che mentre Nessuno pronuncia quei versi, mentre li scandisce, ne ricorda altri
Qui come in altre sequenze del romanzo che lo vedono protagonista, siano esse monologiche o gestite da un narratore esterno, Nessuno agisce sotto il segno della scissione. Il suo rapporto con se stesso e con gli altri è duplice. La sua è una fuga continua, un continuo depistaggio. Così le sue parole e le sue azioni, il suo ritrarsi da Agathe nel momento stesso in cui la possiede.
Non mente quando implora Agathe di non andare, di restare con loro – non mente, tuttavia non parla con sincerità. Come dire, d’altra parte, questa ossessione del superamento, del seppellimento della tara-umana?
Il cuore della scissione si manifesta con una concentrazione inaudita di fluidi nei tessuti cavernosi, un’erezione esplosiva. Come un infame – infame come la sua improvvisa, inaspettata manifestazione di appetito sessuale – prende per mano Agathe e la porta fuori dal cerchio degli stracci dei figli della notte.
Agathe, la sua prima lettrice dei sui scritti, la sua interlocutrice privilegiata, è anche la donna da cui si allontanerà, sventando il pericolo di essere posseduto da lei. Solo quando ho incontrato l’orecchio di Agathe la mia voce è diventata oggetto di analisi microscopica – è diventata qualcosa. Quando le cose si sono mischiate io sono scappato – anche da lei. Non c’è modo che qualcuno, chiunque sia, s’impossessi di me a questo punto. Una cosa esclude l’altra: i corpi o i testi.
Ma Agathe è anche la donna alla quale Nessuno confesserà la sua scelta di non proferire mai più parola attraverso la scrittura.
Nessuno le stringe la guancia sul collo per consegnarle il messaggio nel timpano di un orecchio, dice: «Non scriverò più niente».
Ma anche questo non è altro che un depistaggio. Nessuno non sta forse scrivendo la sua storia dopo la dichiarazione fatta ad Agathe? Non stiamo leggendo le sue memorie, il suo racconto di quello che è avvenuto nei due anni di prigionia? Tornando indietro nel romanzo, ma avanti nella storia, troviamo anche nelle sequenze che raccontano la liberazione di Nessuno, la stessa ambiguità, l’identica volontà di depistaggio. Al rischio di un’appropriazione da parte di Agathe si sostituisce la scelta di un giogo diverso rappresentato dalla figura dell’Avvocato. Nessuno viene scelto, e sceglie lui stesso, di diventare l’uomo nuovo della Societas per una volontà di fuga politica. In questa scelta il ragazzo intravede la possibilità di prendere parte attiva alla mistificazione, invece di venirne divorato.
L’appropriazione dell’Avvocato è diversa. Dove Agathe si è fatta da parte, l’Avvocato si è messo a giocare – proprio in quel punto. L’Avvocato è un passo più avanti rispetto ad Agathe, un passo che non ha a che vedere con la precisione degli organi ricettori – nessuno ha il suo orecchio assoluto – ma con un punto di fuga politico. L’Avvocato è un lettore politico. Se Agathe davanti all’ossessività del circolo, al suo feticismo politico, si è fermata trovandovi una barriera, un’obiezione, una falsità – la lettura è un’allucinazione dogmatica – l’Avvocato mi offre un ruolo attivo, pubblico, mitico in questo gioco. Il fatto è che lui vuole giocare col succo dell’inganno,
Un gesto politico: non farsi domande che non siano strategie a breve termine, funzioni, piani di impossessamento, di abusi senza storia.
Nessuno è un personaggio che vive una scissione e che di questa scissione fa un’arma per praticare l’abuso.
Ci sono immagini che devo tenere alla larga: lo stagno in cui mi ero messo quando cercavo di amare Agathe. Bisogna attaccare per primi: l’aggressione è il rimedio. Così il corpo della mia contadina diventa un campo di battaglia. Ora che ti ho amato come un bimbo, che ti ho venerato come un santo – ora succhiami il cazzo. E tu – alzati e fai il tuo dovere.
Prossimo alla liberazione Nessuno assumerà una connotazione bestiale. Dismesso il gioco delle proiezioni i corpi che si sono uniti sessualmente torneranno ad essere oggetti contundenti l’uno per altro, al termine della battaglia, con il ritorno del pensiero, quando il desiderio fantasmatico si disperde, l’ombra di memoria che ha unito i corpi si dilegua lasciandoli soli, divisi, nemici.
Ho spruzzato: ho contato sette battiti, forse otto. Mi è tornato il pensiero. La mia contadina è stesa di fianco, ingelatinata fin sopra le ciglia e sulla fronte – l’ho scordata. La odio. Mi fai schifo, contadina, ma non posso dirtelo.
Nessuno è ancora e sempre solo con se stesso, continua a leggersi a interpretarsi mentre vive, mentre fugge, mentre gode. Immagini di felicità e di comunione e di desiderio si scontrano, raggiunto il coito, con la sconfitta dell’immaginazione. Il personaggio cessa di vedere il suo desiderio fantasma e torna a guardare all’interno e si ritrova di colpo in una stanza vuota, in cui restano solo i corpi, corpi distanti, separati ora che sono stati liberati dal desiderio. Nessuno è un varco, una crepa attraversata dagli eventi, impossibilitato a usare l’altro se non per ferire se stesso e quindi per sempre mutilato, frustrato nelle sue ambizioni, la più grande di tutte quella di essere il suo stesso creatore, essere allo stesso tempo la mente che pensa e il pensiero stesso, di liberarsi dalla vergognosa limitazione a cui è soggetta ogni creatura umana.
C’è una guerra in atto nella mia testa – seguo i pensieri interrompersi, sbattere contro le barricate. Lo sforzo di visualizzare l’intero campo di battaglia – le imboscate, i vicoli ciechi, gli sgozzamenti – mi fa sboccare. È una colica, una tempesta: le fitte improvvise sono scariche di vergogna – la vergogna di essere un uomo: tara pensante, fabbrica di idoli.
La sua vera liberazione è rimandata a tempo indefinito, forse non avverrà mai. Nel momento in cui l’Avvocato lo esorta a costruire i fatti, riposizionandolo all’interno della storia, Nessuno è già stato ridotto lui stesso a pura funzione narrativa, una figura sostituibile, un’identità mai giunta a compimento che, inevitabilmente, verrà a sovrapporsi a quella di un altro.
La sola esistenza dell’Avvocato è un sollievo. È aria, ossigeno fresco di montagna – proprio per la sua intrusione. Per l’agone. Se l’Avvocato esiste ed è un infame, Nessuno può infine indossare la maschera della vergogna senza rimorso.
Il fanciullo rapito diventerà, in una storia che si conclude ripiegandosi sul passato, il fanciullo scambiato il cui unico destino è la servitù perpetua all’avvicendamento del potere. Anche lui, Nessuno, alla fine diverrà niente più che un simulacro del potere, così come i suoi predecessori.
Il laboratorio.
L’Onorevole continua a spingere meccanicamente – il riflesso come un residuo di speranza. Stringe gli occhi, si morde le labbra: un piede nella vita e uno nella morte, insegue l’idolo e lo mantiene vivo. Mio re, non me lo faccia dire – pensa l’Avvocato e non lo dice. Ora il trasporto pre-coito fa posto a una compiutezza, a un contegno glaciale. È la chiarezza della visione, come un presagio. E vede – infoiato dall’ombra platonica delle candele come nel gioco che ha dato il via alla rappresentazione – il gioco stesso avviluppare gli attori che lo giocano, e impossessarsene. Sbranarli con la precisione automatica di un algoritmo – senza spargere un goccio di sangue, senza strappargli i tessuti come in una sala di tortura. Questa è la faccia, l’idolo del potere nell’era della tecnica, si dice – una faccia così delicata e sfuggente, che solo in un laboratorio o in un teatro è possibile ricomporre, misurare e immaginare. Viva la tecnica.
La letteratura è piena di casi del genere: di poeti che intendono afferrare le forze che reggono il gioco per possederle. È proprio in questa rincorsa, in questa tensione pornografica tra la parola e la forza, che l’animale-uomo s’installa a operare fin dall’inizio.
E va a finire che l’unico luogo dove abbracciare questo sclero, dove mostrarlo nella sua gloria, è un’altra finzione, un laboratorio come questo. «Sei tu dolce pensiero» Questa forza, il desiderio stesso – il pensiero –, prima di tutto filtrata nella griglia delle interazioni fondamentali. Così anche Amore, quel personaggio tra i favoriti delle cosmogonie, quel collante, diventa un incrocio tra l’interazione gravitazionale e quella elettromagnetica – senza mai togliere nulla a quelle nucleari. Questa forza, qua dentro – si può dire ora senza vergogna e con tutta la gloria che le circostanze sperimentali permettono – sono io, voce narrante e Voce. Così, mentre fuori impazza lo sclero, finisce che in questo laboratorio il misurante è anche il misurato.
Il laboratorio è il luogo in cui viene mostrata la finzione, dove si tenta di afferrare e possedere “le forze che reggono il gioco”, dove è stato immaginato e ricomposto il volto del potere, dove ci si impossessa del pensiero, dove la realtà viene screditata. Il laboratorio è il teatro in cui viene rappresentata la creazione del mondo romanzesco, il tavolo da obitorio in cui viene dissezionato il suo cadavere. Siamo arrivati al centro nevralgico dell’edificio, lì dove viene confezionata la bomba voyeur.
Solo ora possiamo realmente abbracciare la fuga simbolica che abbiamo chiamato Bomba Voyeur. Schiacciato tra due forze fondamentali nello spazio dilatato della Rete, l’uomo desidera. Da un lato è uno – individuo indivisibile per finzione di natura – dall’altro niente.
Il desiderio sciolto per lo spazio pervasivo della Rete è la Bomba Voyeur. Nella Bomba Voyeur si infrangono ulteriori barriere: natura e cultura sono una cosa sola, forma e contenuto anche; è il regno della tautologia e della masturbazione.
“La bomba voyeur” raggiunge un apice drammatico nel capitolo intitolato “Fabbricare i fatti”, dove le voci narranti diventano protagoniste e iniziano a dialogare tra loro. Come sfuggite di mano all’autore (in realtà qui Zucchi dimostra di tenere ben salde le redini della sua ambiziosa costruzione) le linee narrative si pongono una di fronte all’altra e danno vita a una sequenza dialogica di campo e controcampo. Il gioco narrativo a cui abbiamo assistito fino a questo punto, intreccio, accorpamento o dispersione delle linee di racconto, si interrompe. Questo capitolo è una promessa di quello che avverrà nel momento in cui il romanzo assumerà la voce saggistica che è quella con cui l’autore ci parla all’interno del laboratorio. La fabbricazione dei fatti come elemento importante, su cui vale la pena soffermarsi, è ribadita anche dalla sua riproposizione nel capitolo che dà il nome al romanzo, che si apre in questo modo:
Il processo vero e proprio – non il procedimento penale alle porte che è un riflesso ridotto, quasi insignificante e in ogni caso secondario, successivo, rispetto alla cosa che l’Avvocato e Nessuno vogliono fare: la fabbricazione dei fatti – richiede massima precisione.
Questa parte del romanzo, in cui vengono svelati i motivi drammatici e stilistici mossi per la sua costruzione, in cui l’analisi del contenuto è il contenuto stesso, mostra un procedimento che, come abbiamo anticipato, è stato anticipato nel capitolo 14: “Fabbricare i fatti”. Qui Nessuno parla attraverso la voce che abbiamo già incontrato e a questa voce risponde, in calce, una nota di commento. Nessuno è stato appena liberato e incontra il suo carceriere, L’Avvocato, che gli pone davanti un mandato che è quello che l’autore ha posto a se stesso: la costruzione di una storia attraverso la fabbricazione (fabbricazione, non riproposizione) dei fatti, perché l’agone è tutto. Nessuno acconsente. Scriverà le sue memorie, fabbricherà i fatti e così facendo scomparirà, sarà per noi, che questi fatti raccoglieremo dalla sua stessa voce, Nessuno, il fanciullo in fuga dal potere, dal potere rapito e in fine arruolato tra le sue fila.
…un rito di seppellimento dell’individuo, della sua persona e della sua voce, in favore di qualcos’altro. La goduria
del dolore e della morte, una festa: la gloria di fottersene del dolore, di volere la fine, di pensare con una lama
puntata sui lobi, dove tu sei la lama e sei i lobi – e poi non sei più.
Anche il lettore, come Agathe, leggerà i versi di Nessuno, si approprierà di lui attraverso le parole scritte. Questa appropriazione, ci suggerisce Zucchi, è un abuso, un atto violento che porta allo spossessamento, qualcosa che sottrae il soggetto alla sua storia.
…per la prima volta la figura del lettore mi colpisce così forte in faccia. La violenza del gesto dell’Avvocato è
prima di tutto ermeneutica – non il furto, il gesto, ma la sua intenzione: la sua appropriazione di me attraverso i miei versi.
Agathe e l’Avvocato si sono, in modo diverso, appropriati di Nessuno attraverso la sua voce, le sue parole. La loro posizione, quindi, si avvicina a quella di noi lettori, e allo stesso modo l’autore la moltiplica per renderci partecipi di entrambi gli spossessamenti, quello agito da Agathe nei confronti di Nessuno, e quello ancora più pervasivo dell’Avvocato. Quando Nessuno parla la nota critica amplia, chiarifica, contestualizza, cerca di toglierci di mano l’interpretazione della storia, di sottrarsi all’abuso che è stato perpetrato sul suo protagonista.
Così Nessuno risponde alle ipotetiche domande del lettore.
Perché sei fuggito da Agathe?
Solo quando ho incontrato l’orecchio di Agathe la mia voce è diventata oggetto di analisi microscopica – è diventata qualcosa. Poi il campo di forze – qualcuno, per semplificare, potrebbe chiamarlo amore – ha avuto la meglio: c’è qualcosa nel non detto, nel silenzio in arte, qualcosa che ha e che spiegherebbe anche le mie massicce erezioni nei musei. Giocare con entrambe le cose: i corpi e i testi. Quando le cose si sono mischiate io sono scappato – anche da lei. Non c’è modo che qualcuno, chiunque sia, s’impossessi di me a questo punto.
Perché ti sei negato ad Agathe e non hai invece saputo sottrarti all’Avvocato?
L’appropriazione dell’Avvocato è diversa. Dove Agathe si è fatta da parte, l’Avvocato si è messo a giocare – proprio in quel punto. L’Avvocato è un passo più avanti rispetto ad Agathe, un passo che non ha a che vedere con la precisione degli organi ricettori – nessuno ha il suo orecchio assoluto – ma con un punto di fuga politico. L’Avvocato è un lettore politico.
In questo botta e risposta che caratterizza il capitolo alcune questioni fondanti, che riguardano la storia e i fatti, che continuamente eccedono la storia e travisano i fatti, vengono smontate davanti ai nostri occhi. Se “nominare è la strategia che l’uomo usa per stare al mondo”, il romanzo di Alfredo Zucchi è allo stesso tempo il campo di battaglia e la mappa su cui vengono studiate le strategie di attacco. Pone domande nelle quali è già nascosta la risposta e risposte che creano continue domande. Questo vizioso circolo ermeneutico è la sostanza, pericolosa al fine della costruzione di un legame con il lettore, che si maneggia al suo interno, nel suo laboratorio.
Questo circolo non si scioglie: è un difetto di configurazione, o semplicemente il modo della configurazione.
Una storia è la sua configurazione, oltre che la sua interpretazione. Nel romanzo di Alfredo Zucchi gli eventi sono configurati in modo da esporre il campo libero a un continuo lavoro interpretativo che diventa assoluto protagonista, pensiero dominante direbbe Zucchi, all’interno del laboratorio. La particolarità del suo discorso sta nella sua dichiarata vocazione alla sconfitta. Il cerchio non si chiude, nessuna verità verrà rivelata alla fine di un così minuzioso lavoro analitico se non che è impossibile arrivare a una conclusione che non sia anche principio di un nuovo appassionante viaggio interpretativo. Il romanzo è la sua interpretazione, ma anche la sua configurazione perché qui la sua configurazione mima il processo interpretativo.
…nel laboratorio in cui ci troviamo, la voce è l’unica cosa che conta.
Idee, conflagrazioni di senso e sforzi sintattici: questa è la materia di cui si nutre il fantasma celato nella casa occupata. Un fantasma che è stato annunciato nel titolo del romanzo, che dei fatti narrati, fabbricati e travisati, si è cibato fino a questo momento; un fantasma di senso che è un gioco di prestigio in cui entrano in scena passi di critica letteraria e speculazioni filosofiche, spunti di cultura visuale, di storia dell’arte, e approfondimenti sociologici. Un fantasma, quindi, una figura concettuale che solo qui, nel laboratorio, viene finalmente immobilizzata e sottoposta a minuziosa analisi per poi assumere una posizione, pronta a dileguarsi o a farsi carico di nuove implicazioni problematiche che nella nomenclatura eccentrica di questo romanzo viene esplicitata come Bomba Voyeur. Non un oggetto, ma una dilatazione del pensiero rappresentativo: la fuga simbolica della forza del desiderio.
Il gioco tuttavia non si ferma, non finisce. Ogni sconfinamento nell’orizzonte della Tecnica produce una dilatazione nei limiti pensati del mondo. Questa dilatazione del pensiero rappresentativo è una fuga in avanti. La fuga simbolica della forza, del desiderio, è la variabile che si vuole misurare in questo laboratorio. La logica incrementale della Tecnica nell’era moderna – questa parentesi ipertecnologica dell’evoluzione – affama l’animale-uomo. Il suo desiderio muta, cresce, si adatta alla natura dello spazio vitale e vuole permearlo. Questo spazio vitale è la Rete. Nella Rete, il desiderio dell’animale-uomo prende la forma della Bomba Voyeur.
Se è vero che le posizioni di prossimità e distanza sono state annullate, che l’interdizione alla visione è stata aggirata, la pervasività del potere visivo degli uomini nel tempo della rete, in cui l’osceno si fa manifesto, e tutto è a vista, ci ha reso ciechi. Non possiamo fare altro che scavare e avanzare nel mondo come in una nebbia.
Nominare è allo stesso tempo tara e spada. È la pala che apre la strada e il terriccio che impedisce la vista.
La visione interdetta è una scelta autoriale che attraversa il romanzo. La nebbia ermeneutica che lo avvolge rappresenta il suo fascino e il suo limite. Per usare un immagine cinematografica possiamo pensare all’inquadratura che apre “Citizen Kane”, che vede noi spettatori fermi davanti all’ entrata di questo maestoso palazzo, un rifugio allo stesso tempo sfarzoso, misterioso, e occupato da un fantasma. Prima di farci varcare la soglia della famosa reggia la nostra guida visiva tenta di scoraggiarci con mille divieti. No trespassing, che occupa interamente il quadro all’inizio del film è analogo alla domanda con cui l’autore di questo romanzo ci costringe a fermarci prima di entrare nel testo: che sono i fatti? La prospettiva di un ignaro visitatore della casa occupata non può prescindere da questo avvertimento. La domanda è affissa all’ingresso e non ci sarà modo di eluderla.
…non siamo semplicemente in un poema ma in un limite: un luogo in cui il cranio teso in avanti dell’uomo sbatte contro una superficie, una barriera che gli impedisce di andare oltre, e non si capisce se si tratti dei limiti del mondo o di quelli della sua testa.
In questo romanzo, in questa casa occupata, nel caso decideste di entrare, scoprirete che “Ogni Pensiero emette un Colpo di Dadi” Davanti a questo continuo rilancio del discorso, questo spingere sempre oltre la sua chiusura, la posizione del lettore può variare dalla frustrazione a una condizione (la mia) di intenso coinvolgimento intellettuale, dato dalla complessa sfida interpretativa a cui il romanzo sembra chiamare i suoi lettori più tenaci.
Per essere perfetto nella sua tensione mimetica questo poema non dovrebbe avere fine.