La storia. Proprio quando ci siamo decisi a darle un corpo ecco che ci sfugge, non riusciamo a toccarla, si ritrae indispettita. Resta in silenzio, non riusciamo a trovare le parole giuste da dedicarle, del resto neanche lei ci parla, non più. Di colpo quello che ci lega a lei è meno di niente. Ora che eravamo pronti a legarci per la vita, o almeno a intrattenere con lei una relazione stabile per i mesi a venire, lei si dilegua. Fa male tutto questo silenzio innaturale, è una specie di incubo, sembra di essere precipitati dentro una canzone di Diodato. Ma preferisco pensare che la nostra relazione complicata con le storie suoni un po’ come una murder ballad di Nick Cave, nello specifico “Where The Wild Roses Grow” il protagonista della canzone di Nick Cave, dopo aver desiderato e amato la donna interpretata da Kylie Minogue, la porta a vedere le rose selvatiche e poi la uccide colpendola in testa con una pietra. Il rapporto con la nostra storia può essere violento e portare alla sua morte. Capita. Abbiamo corteggiato per molto tempo la nostra storia prima di deciderci a toccarla e ora che siamo pronti, ora che abbiamo giurato a noi stessi che non lasceremo la scrivania finché non l’avremo fatta nostra (scusate l’immaginario western) ora ci rendiamo conto che lei non ci appartiene, che non era come credevamo che fosse, che in fondo noi non la conosciamo. Quindi forse non se ne fa niente, è una bella scocciatura (lo avete capito o no che scrivere comporta una serie infinita di scocciature?) ma per noi, che senza neanche conoscerla amavamo la nostra storia, è un bel dramma. Non c’è nessuna storia, eppure ci sembrava di sì, non ce la siamo sognata, no? No, c’era qualcosa, c’è ancora qualcosa, tanto che voglio scriverla, ma cosa? Una certa atmosfera, oppure un luogo che conosco bene e che mi sembra interessante, un personaggio che mi è rimasto dentro, una serie di battute di dialogo che hanno un suono perfetto- dovresti ascoltare per capire come starebbero bene dentro una storia- che però ancora non c’è. Esiste qualcosa che però non è una storia, e dentro questo qualcosa c’è la mia voglia di scrivere, il fatto che mi sono in qualche modo persuaso (forse a ragione, forse no) di poterla scrivere, una felicità mista alla paura di fallire, e anche un temporaneo aumento dell’autostima, a cui non voglio rinunciare. Quindi io la storia la voglio, la storia che mi ha irretito, voglio che si mostri, ma la verità è che mentre sento di volerla, so anche di essere manchevole, so che la colpa è mia se lei non è qui con me, perché io, a questo punto ne sono convinto, non so inventare le storie, non posso farlo, dovrebbero venire da me spontaneamente o niente, lo so, ma so anche che questo non accadrà, o forse sì, ma chissà quando, e io non voglio aspettare. Allora che si fa? Rinuncio? Calma. Non siete i soli a trovarvi in questa situazione. Come dice Leporello a Donna Elvira: non siete voi, non foste, e non sarete né i primi né gli ultimi, anzi, aggiungo io, siete in buona compagnia. Quindi restate alla scrivania e sentite cosa dice Émile Zola al riguardo.
Ecco come faccio il romanzo. Non lo faccio affatto. Lascio che si faccia da sé. Io non so inventare dei fatti, mi manca assolutamente questo genere d’immaginazione. Se mi metto a tavolino per cercare un intreccio, una tela qualsiasi di romanzo, sto lì anche tre giorni a stillarmi il cervello, con la testa tra le mani ci perdo la bussola e non riesco a nulla. Perciò ho preso la risoluzione di non occuparmi mai del soggetto. Comincio a lavorare al mio romanzo, senza sapere né che avvenimenti vi si svolgeranno, né che personaggi vi avranno parte, né quale sarà il principio e la fine. Conosco soltanto il mio protagonista (…) Questa è la mia occupazione più importante: studiare la gente con cui questo personaggio avrà a che fare.
Con queste premesse Zola inizia a scrivere di Nanà, una cocotte. Nanà, quella che canta come una rana, l’imbranata che in scena non sa dove mettere i piedi e le mani, questa ragazzona bionda senza nessun talento, con la voce stridula, i gesti inappropriati, la Venere molto alta e formosa di una commedia volgare, quella che tutti reclamano a gran voce, scandendo il suo nome nella sala stracolma di un teatro che somiglia a un bordello, quella che strega tutti appena si apre il sipario. Cosa ci importa, leggendo Nanà, della sua storia? Niente. La sua è una storia che non desta nessuna sorpresa. La sua ascesa, il suo declino, la sua morte solitaria, la pericolosa malia del suo corpo, sono comuni a tante altre storie che portano impresso il nome di altre donne fatali. Le scene in progressione che ce la mostrano alla ribalta teatrale e poi nel fango, picchiata e tradita dall’amante troglodita, poi ricoperta d’oro da quello facoltoso, tormentata dai debiti e dalla paura, o ben sistemata in un lussuoso palazzo, che lei si affretta a riempire di uomini, non sono niente senza qualcosa che con la storia ha poco a che fare. Nanà non è la sua storia perché il romanzo di Zola trascende gli eventi, e non è fatto di connessioni causali ma di bagliori incendiati, pozze luminose macchiate dal buio, di brusii e toni acuti, di pulviscoli dorati e tenebre fitte. Ogni cosa, anche il nome carezzevole della protagonista, le due sillabe scandite a voce alta dai suoi ammiratori, sussurrano al lettore che la vita è tutta una questione di luce, che ciò che brilla è costantemente insidiato dalle ombre, e che l’oro può trasformarsi in una tinta dozzinale a seconda della luce che lo attraversa, l’oro così come la vita, l’amore, la morte. Tutto è intermittente e così è Nanà, la donna dal nome carezzevole, un innesco che accende una fiamma negli occhi di chi la guarda, la donna che nessuno conosce per intero, forse neanche il suo autore, la donna di cui ogni cosa è degna di nota, a eccezione della sua storia. Quindi se ora non avete una storia non è un gran problema, prendete quello che avete e illuminatelo come si deve. Invece di una storia cercate dei pretesti, delle occasioni, per far sì che la storia possa incarnarsi: una prima all’opera, con il suono della campanella e il parapiglia, il fruscio di gonne cariche di balze, il candore di una spalla nuda, il riso disarmato di una donna di cui ancora non sapete nulla. No, ora che siete appena all’inizio, non cercate la storia, non cercate, non ancora, una mappa da seguire scrupolosamente, perché questa mappa, se mai decideste di seguirla fin da subito, certo non vi porterebbe dove per esempio ci conduce Zola a un certo punto della storia, un luogo semplice eppure, per noi che ci capitiamo dentro quasi per caso, esotico, un luogo inaspettato di cui forse, al principio, Zola non aveva immaginato l’esistenza. Lì dove lui ci conduce, e dove voglio portarvi anche io, la storia si eleva al di sopra dei fatti, per incarnarsi in un incantevole posto delle fragole, visitato di colpo dal sublime letterario. Andiamo a visitare il campo di cavoli di Nanà in compagnia della sua cameriera Zoé.
– Zoé, Zoé, dove sei? Sali, vieni qui! Non puoi avere idea…È favoloso! –
Zoé salì brontolando. Trovò Nanà sul tetto, appoggiata alla balaustra di mattoni, in contemplazione della vallata che si apriva in lontananza. L’orizzonte, immenso, era offuscato da vapori grigiastri, e un violentissimo vento spingeva davanti a sé goccioline di pioggia. Nanà doveva reggersi il cappello con tutte e due le mani, perché non le volasse via, e i suoi abiti sbattevano al vento, schioccando come bandiere.
– Ah, no, io lì non ci salgo, neppure per idea! – esclamò Zoè, che aveva messo fuori la punta del naso, tirandosi immediatamente indietro. – Signora, rischiate di cadere…Che tempo schifoso! –
Nanà non l’ascoltava neppure. Con la testa china, contemplava la tenuta, ai suoi piedi. Erano sette o otto armenti di terra, cinti da muri. La vista dell’orto la conquistò immediatamente. Si precipitò giù dalle scale, fece quasi cadere Zoé per scendere più in fretta, farfugliando:
– È pieno di cavoli! …Cavoli grossi così! …E insalate, acetosa, cipolle… c’è di tutto! Vieni andiamo a vedere. –
La pioggia cadeva più forte. Nanà aprì l’ombrellino di seta bianca, e corse nel viale.
(…)
Aveva un bisogno incoercibile di percorrere tutti i viali del giardino, di prendere immediato possesso di tutte quelle cose, che aveva tanto sognate un tempo, quando trascinava le ciabatte da operaia sul selciato di Parigi. La pioggia diventava sempre più forte ma lei non la sentiva, desolata soltanto che stesse venendo buio. Ci vedeva sempre meno, doveva toccare le piante per rendersi conto della loro natura. Di colpo, nel crepuscolo, scorse le fragole. Allora tutto ciò che c’era in lei di infantile esplose.
Ora è arrivato il momento di scrivere. Se non avete una storia ma avete un personaggio, anche solo appena accennato, cominciate a immaginare almeno due luoghi abituali in cui è plausibile pensarlo in azione, e poi immaginatene un terzo in cui lui verrà a trovarsi per caso. In questo luogo fategli fare una scoperta, un incontro inaspettato, qualcosa che non avete previsto. Dimenticate la storia, per ora, trovate il posto delle fragole del vostro protagonista, portatecelo e state a vedere cosa succede. Poi scrivetelo in due cartelle appena, di getto.
Se non avete una storia e non avete neanche una vaghissima idea di personaggio: ne dobbiamo parlare. Lo faremo nelle prossime puntate.
Nanà, Émile Zola, 1880
Nanà, Émile Zola, 2008 Newton Compton, traduzione di Luisa Collodi.