Una sera, mentre lavavamo i piatti, Ethel mi disse con aria pensierosa che l’atteggiamento di Trencher nei suoi confronti le sembrava strano. “Continua a fissarmi, “mi disse. “Sospira e mi fissa. So quale aspetto ha mia moglie quando va al parco: ha indosso un vecchio cappotto di tweed, soprascarpe, guanti militari, e una sciarpa legata sotto il mento. E il campo giochi è uno spazio cementato e recintato, chiuso tra un quartiere popolare e il fiume. Certo non si poteva prendere sul serio l’immagine del medico roseo ed elegante che smaniava dietro a Ethel in un ambiente come questo. Ethel non parlò più di lui per alcuni giorni e pensai che il dottor Trencher avesse cessato le sue visite. Alla fine del mese cadeva il compleanno di Ethel. Io me n’ero dimenticato, ma al ritorno a casa trovai un fascio di rose nel soggiorno.
(“Stagione di divorzio”, da “Ballata”, Jhon Cheever, Feltrinelli, 2014, traduzione di Marco Papi, Adelaide Cioni, Sergio Claudio Perroni)
Oggi dovremmo parlare del personaggio, della sua costruzione, del suo ruolo nella storia e di tante altre cose che lo riguardano e che vale sempre la pena approfondire, ma prima di tutto mi interessa questo matrimonio pericolante trovato in un racconto di Jhon Cheever. Il racconto è narrato dal punto di vista di lui, un uomo ancora giovane sposato da dieci anni con Ethel, una donna, che, ce lo rivela il narratore all’inizio del racconto, ha i capelli castani, gli occhi scuri e l’animo gentile. Ethel, agli occhi del narratore, è una donna accomodante che fa una vita semplice e ripetitiva, delimitata da una serie di impegni familiari così perfettamente cadenzati da far intuire sempre al marito dove si trova e con chi. Ma in questa routine, in questa caratterizzazione superficiale della moglie, di cui lui ha creato una maschera funzionale alla sua vita coniugale, neanche troppo appetibile, un giorno si inserisce un terzo sguardo, un uomo per il quale la donna diventa qualcosa di completamente diverso, una sorta di ossessione amorosa, un oggetto del desiderio che sconvolge il protagonista non tanto per la carica di minaccia che lo sconosciuto rappresenta per il suo matrimonio ma perché la donna, da cui questo estraneo sembra essere fatalmente attratto, non somiglia per niente al personaggio che lui ha assegnato alla moglie all’interno della loro relazione. Ma allora, se questa infatuazione è vera, se non si tratta solo di un ridicolo equivoco, dov’è la verità? Chi è Ethel? È la donna dimessa, con i guanti militari e la sciarpona sotto il mento, oppure è la creatura affascinante che ha stregato il bello, fresco e ricco dottor Trencher, tanto da spingerlo a supplicarla di fuggire con lui per esaudire il suo desiderio di poter sempre udire la musica della sua voce? La mia risposta, scontata, è che Ethel è entrambe le cose, così come un personaggio è sempre, o dovrebbe esserlo, più della somma delle sue parti, e certamente più degli elementi che compongono la sua scheda personaggio. Eccoci arrivati a una tappa ineludibile del discorso sul personaggio, le famose schede, che spesso vengono raccomandate dai manuali di scrittura creativa. Affrontiamole subito in questa puntata propedeutica al personaggio, così ce le leviamo di torno. Cosa sono? Le schede, un mezzo come un altro per iniziare a lavorare sul personaggio, sono una serie di elenchi di caratteristiche fisiche, piscologiche, sociologiche, che riguardano il personaggio, l’annotazione, più o meno minuziosa, di un carattere, un tipo umano che poi, bardato di tante informazioni, retro storie, piatti, film, dischi e colori preferiti, dovrebbe ( ma poi non lo fa mai, se vi limitate a questo strumento) muoversi nel racconto “come fosse una persona reale”. Ecco, la prima cosa da dire su questo è che le persone reali, da sempre, non fanno altro che tradire le asfittiche schede personaggio che qualcuno, i genitori, la famiglia, una fede religiosa, politica, delle mancanze di vario tipo, hanno elaborato per loro. Forse vivere non vuol dire altro che questo: andare oltre il pezzo di carta che pretende di definire chi siamo, farlo in mille pezzi, oppure ingurgitarlo per intero per poi restare soffocati. Quindi, per farla breve: le schede dei personaggi servono a qualcosa? È attraverso questo strumento che riuscirò a creare un personaggio complesso e inafferrabile come Heathcliff di “Cime Tempestose”, potente e pieno di sorprese come Vic Mackey di “The Shield”, immenso come il vescovo di Digne de “I miserabili”, autentico come Olive Kitteridge di Elizabeth Strout? La mia risposta è sì ma anche: no, per niente. Sì, le schede possono servire, sono uno strumento come un altro, ma d’altra parte no, se la vostra idea di costruzione di un personaggio si basa esclusivamente sulle schede allora mi rimangio quanto detto, e vi dico di non fidarvi di questi schemini che bastano appena a intravedere una forma che da sola non sarà mai sufficiente a fare il personaggio, con la quale potrete al massimo mettere in scena uno stereotipo che si muove rigidamente di capitolo in capitolo con l’unico scopo di dimostrare una funzione narrativa. Perciò usate pure le schede e scrivete questa piccola biografia del personaggio, ma fatelo al solo scopo di creare una maschera, ossia una caratterizzazione base, superficiale, che sarà una sorta di vestito da poco in cui avrete infilato il vostro personaggio, in attesa di mostrarlo nudo, senza orpelli, messo in una situazione drammatica capace di mostrare chi è veramente. Perché l’uomo alla fine, per dirla con Sartre, non è né codardo né eroe, ma si fa ogni giorno in base alle sue azioni, alle sue scelte. L’uomo, e il personaggio, non sono quello che credono di essere, ma quello che avranno progettato e poi dimostrano di essere con le loro azioni. In barba a tutte le belle caratteristiche di cui possiamo averli equipaggiati, i personaggi esprimono la loro natura solo nel momento in cui vengono chiamati dalla storia a fare una scelta, a prendere una decisione. Non è la nota di colore di cui mi sono affrettato a informare il mio lettore (Tizio ama cantare il Don Giovani affacciato al balcone) che lo convincerà di trovarsi davanti a un personaggio insolito e interessante, perché al contrario è la portata delle sue azioni, l’importanza delle sue scelte, la sua incoerenza, il suo lassismo, la sua ambiguità, che lo caratterizzeranno in modo profondo e indimenticabile. Il mio consiglio per iniziare ad avvicinarci a questo congegno difficile da maneggiare è di non considerare mai il personaggio come qualcosa di dato e risolto, ma, al contrario, di trattarlo come una identità in continua evoluzione, che non può essere definita perché che esiste solo in relazione a qualcosa che è altro da sé, che esiste solo come azione che ricade su un altro oppure come reazione all’azione di un altro su di sé. Su questo torneremo con degli esempi pratici nella prossima puntata. Intanto, il primo testo che vi consiglio di leggere per provare a costruire un personaggio capace di agire oltre la maschera della sua caratterizzazione è il breve saggio di Jean Paul Sarte “L’esistenzialismo è un umanismo.” La costruzione di un personaggio, e di un uomo, è un affare complicato fatto di assenze di valori intellegibili, e di scuse, di disagi più o meno temporanei con la propria coscienza, di impossibilità di ancoraggi e senso di abbandono, di scelte che siamo chiamati a fare avendo chiaro in mente che mentre costruiamo l’uomo, e il personaggio, così com’è, costruiamo anche, in modo indiretto, l’uomo così come dovrebbe essere, o non essere, o come abbiamo timore che possa diventare. Ma ora vi lascio alle parole di Sartre e no, con tutto questo esistenzialismo unito alla voglia di uscire non corro a buttarmi dal balcone, mi metto a scrivere, perché in verità l’esistenzialismo è un umanismo e l’uomo è quello che fa.
Ma l’esistenzialista quando descrive un vile, dice che questo vile è responsabile della sua viltà. Questo vile non è così per il fatto che ha un cuore, un polmone o un cervello vile; non è così in base a una particolare organizzazione fisiologica: è così perché con i suoi atti si è dato la forma di un vile. Non c’è temperamento vile: ci sono temperamenti nervosi, c’è il “sangue povero”, come dice la brava gente, ci sono temperamenti ricchi, ma l’uomo che ha il sangue povero non è vile per questo, perché ciò che fa la viltà è l’atto di rinunciare o di cedere; un temperamento non è un atto, il vile è definito tale in base all’atto che ha compiuto. La gente ha una oscura sensazione e prova orrore per il fatto che il vile che presentiamo sia colpevole di essere vile. La gente vuole che si nasca vili o eroi. (…) L’esistenzialista, invece, dice che il vile si fa vile, che l’eroe si fa eroe…
E aggiungo, per concludere: ricordate sempre che il personaggio di una storia, in relazione con un altro, all’interno di una determinata scena drammatica, può agire da vile e poi in un contesto diverso da eroe. È lo steso personaggio, ha tradito le schede che volevano intrappolarlo, ha tradito l’immagine che il lettore si era fatto di lui, ma forse è proprio per questo che è stato poi capace di catturarci, forse è per questo che non possiamo dimenticarlo.
Ora, come al solito, l’esercizio: fate una scheda personaggio abbastanza accurata, confezionate una bella maschera che presenti una caratterizzazione base del vostro personaggio. Poi create un’azione drammatica che lo obblighi a prendere una decisione, ad agire. Strappate la maschera e fatelo uscire allo scoperto. Chi è il vostro personaggio in questa situazione? Prendetevi lo spazio che volete. Se non riuscite ci vediamo alla prossima puntata in cui torneremo sull’argomento con qualche esempio pratico.
Ho citato qualche libro e una serie tv in questa puntata, eccoli qui:
“Stagione di divorzio”, da “Ballata”, Jhon Cheever, Feltrinelli, 2014, traduzione di Marco Papi, Adelaide Cioni, Sergio Claudio Perroni
“Cime tempestose”, Emily Brontë, 1847
“The Shield”, serie televisiva statunitense ideata da Shawn Ryan, 2002 – 2008
“Olive Kitteridge”, Elizabeth Strout, 2008
“I miserabili”, Victor Hugo, 1862
“L’esistenzialismo è un umanismo”, Jean-Paul Sartre, 1946 (La citazione è tratta dall’edizione del Gruppo Mursia Editore, traduzione di Giancarla Mursia Re.)