“Lolita, luce della mia vita, fuoco dei miei lombi. Mio peccato, anima mia. Lo-li-ta: la punta della lingua compie un percorso di tre passi sul palato per battere, al terzo, contro i denti. Lo. Li. Ta. Era Lo, semplicemente Lo al mattino, ritta nel suo metro e quarantasette con un calzino solo. Era Lola in pantaloni. Era Dolly a scuola. Era Dolores sulla linea tratteggiata dei documenti. Ma tra le mie braccia fu sempre Lolita. “
Al principio è solo un lieve palpito narrativo, che diviene un racconto di una cinquantina di pagine, scritto in russo, ambientato a Parigi, con protagonista una ninfetta francese. Non è un bel racconto, non per Nabokov che una notte, dopo averlo letto a un gruppo di amici, come racconta lui stesso, lo distrugge, o pensa di farlo, perché poi il racconto, “L’incantatore”, salta fuori. L’incipit non ha nulla a che vedere con il perfetto attacco di “Lolita”. Nell’Incantatore il protagonista si domanda: “Come posso farmene una ragione?” e riflette sulla depravazione volgare e la distingue da quella raffinata. La ninfetta è una specialissima fiamma e lui ragiona sul suo valore inestimabile. Dice anche, a se stesso: no, non sono uno stupratore. Un inizio debole, se mai si può definire debole la prosa Nabokov, un racconto, per sua stessa ammissione, anche se anni più tardi spenderà qualche parola buona per questo suo racconto, che è un esperimento mancato.
Anni dopo, è il 1949, Nabokov è a Ithaca, nel Nord dello stato di New York, e il palpito torna, più forte, ha messo su gli artigli, dice Nabokov, per diventare un romanzo. Nel 1955 “Lolita” verrà pubblicato a Parigi e, com’è noto, sarà subito uno scandalo. Perché Humbert, il protagonista, è un professore di letteratura di trentasette anni, perché Lolita, la sua preda sessuale, è un’adolescente, ma , soprattutto, perché Humbert, che quando ci narra la sua storia ha già perso Lolita e ha distrutto la sua vita, è ancora intrappolato nel suo desiderio. Non riflette, Humbert, sulla sua colpa, non analizza la sua lussuria e, questo fa di “Lolita” un capolavoro e de “L’incantatore” un racconto mediocre. Humbert non cerca alibi, non prova a nobilitare nulla, quando “Lolita” comincia è ancora assediato dalla sua eccitazione, vittima del suo desiderio, abbagliato da lei, ancora così follemente preso dalla luce del suo corpo, che prende la forma del suo nome, in mille pose diverse, il suo nome nudo che contiene una carica erotica ancora intatta e accecante.
Nell’incipit del romanzo Lolita è ancora viva, il suo corpo brucia ancora in quello del protagonista. La ragazza è ancora il suo peccato, la sua anima, è ancora una parola dannata sulla punta della lingua, è ancora tra le braccia del protagonista e abbiamo subito la certezza che lì resterà, per sempre, contro il suo volere. E subito, Humbert, si definisce un assassino. Lolita è la sua vittima e, ora che l’ha persa, la sua corona di spine. Il romanzo è un falso processo, perché a Humbert dell’assoluzione non importa nulla. Il suo racconto è un’occasione come un’altra per rivivere tutto, ancora una volta, per rendere testimone l’ennesimo incauto lettore di come sono andate le cose, di come è stato appagante e rischioso possederla, di com’è accaduto che lui, Humbert, è riuscito a godere dell’oggetto del suo desiderio, a catturarlo, ad avere l’opportunità di averlo in suo potere. “Lolita” è questo: un’occasione per rivivere quel piacere colpevole, ancora e ancora, finché il racconto dura, perché è stato osceno e sbagliato, perché è stato riprovevole e ogni condanna è giusta e comprensibile, ma per Humbert, e questo è quanto fa di questa storia un vero scandalo, è stato e continua ad essere meraviglioso.
Tra le altre cose “Lolita” è anche un romanzo comico, di una comicità crudele ma infallibile e giusta nella sua cattiveria, c’è qualcosa di perfetto nella messa in scena compiuta da Humbert nell’albergo in cui condurrà Lolita nella loro prima notte insieme. C’è qualcosa di tragicamente comico nel suo desiderio insidiato dai rumori dello sciacquone della camera accanto alla sua, qualcosa di disperato nel suo tentativo di rendere sublime quello che invece poi sarà brusco e sorprendente, una lussuria sgraziata, meschina, che lo soggiogherà comunque e che, oltre a scandalizzarci, ci farà ridere, di lui, di noi, dei nostri insensati desideri, che ci ostiniamo a voler dirigere, senza speranza di riuscire mai a una replica in cui tutto vada come si deve, come è stato scritto nella nostra mente tormentata da desideri comuni che a ogni costo vogliamo rendere grandiosi.
“Lolita”, Vladimir Nabokov, 1955