
Ritroviamo il diniego e l’editto nel vocabolario di Emanuela Cocco, e con essi il negazionismo, quella particolare ideologia collusa con l’impostura che l’autrice aveva già sepolto in Mappa e in Demiurnare, racconti in forma di monologo del 2018 e del 2019. Ritroviamo il meccanismo elicoidale che continuamente sposta il senso, il progressivo scollamento tra il monologo e il monologante: la struttura vede un sistematico décalage tra ciò che si dice e ciò che alla parola viene sovrapposto, uno scarto tra l’objet trouvé e l’objet créé cui corrisponde la rinuncia dell’io quale centro di ricezione, coordinamento ed emissione delle informazioni (ed è appunto per via della caduta di un narratore centralizzato, di un io autocentrato ed eterodiretto, che nel romanzo del 2018 Tu che eri ogni ragazza la pietas si faceva “pietà oggettiva” nel segno di Pagliarani).
La poetologia di Emanuela Cocco trae allora la sua ispirazione da quella medesima “desoggettivazione del soggetto” attorno a cui ruota la filosofia compositiva di Elfriede Jelinek; e penso ad esempio al testo teatrale sul diritto di asilo Die Schutzbefohlenen (I rifugiati coatti).
La scrittura disgregante, e i periodi orditi sul crinale sospeso tra la parola e l’immagine, registrano un uso intenzionale del “montaggio” come modulo narrativo, lessicale e formale a un tempo. Laddove Jelinek intrecciava un dramma odierno – quello dei profughi, si era negli anni Zero – con Le supplici di Eschilo, Emanuela Cocco ha riesumato Dei sepolcri di Ugo Foscolo e l’editto di Saint Cloud.
L’articolazione delle frasi, dunque, come disarticolazione del discorso: la tensione verso una lingua franta, il disfacimento della tesi e il disarcionamento del soggetto trovano la loro sublimazione in un “noi” polifonico da cui viene fuori ogni tanto una voce singola, un singolo destino: di immigrato, di emarginato, di “non persona” (per recuperare una vecchia espressione del sociologo Dal Lago) messa a tacere.
Se quella amplificata è una «parola di fango», ossia una parola atta alla modellatura e alla pianificazione ante rem della morte (di una morte reale ma respinta fuori dai confini e dalle mura, negata, disconosciuta), la struttura a elica si riannoda. Il monologo da un lato, e gli inserti relativi alle regole del gioco chiamato «Urne» dall’altro, fanno luce chiarendosi a vicenda. È adesso evidente che la locuzione «Un gioco semplice da fare all’aria aperta quando la terra è fresca e aperta» – locuzione che letteralmente si rifà allo scavo di una fossa nel terreno come fase del macabro gioco – occulta un immaginifico rinvio alla costa, e che, parimenti, il «letto umido e fresco, in estate, soffice di foglie morte, in autunno» rinvia invece alla condizione dei migranti in mare. E appunto si aggiunge che «Nella stagione delle piogge può essere pericoloso, ma ci si diverte di più. […] Attenzione in inverno: quel gelido letto rischia di diventare tuo a buon diritto».
C’è poi, nel racconto, una spia luminosa offerta dalla contrazione «amore più freddo mangia l’anima». Ve lo ricordate Alì del film La paura mangia l’anima? Ecco, solo Emanuela Cocco poteva mettere insieme Ugo Foscolo e Rainer Werner Fassbinder per parlare dell’Italia e dell’Europa contemporanea. I personaggi delle sue storie, dopo essere stati dei Biberkopf, sono adesso degli Alì, ci sussurra la voce di Euridice, come pure dei Franz e delle Joanna (il pappone e la prostituta del film L’amore è più freddo della morte).
Attenzione, infatti: se formalmente I Restituiti combacia con Demiurnare, si spera in vista della composizione di un puzzle dai tanti pezzi, da un punto di vista ermeneutico e tematico sarebbe un grave errore dimenticare la Adele del romanzo Tu che eri ogni ragazza e soprattutto la Alaba del racconto Il Re dei ratti (2019), prima autentica “restituita” della costellazione di personaggi dell’autrice romana.
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Per leggere il racconto Diniego – I Restituiti:
(Andrea Corona)